PER PORRE FINE ALLE ATROCITA’ IN ATTO TRA SERBI, CROATI E
BOSNIACI FURONO IDEATI GLI ACCORDI DI DAYTON, SPINTI DAGLI AMERICANI. MA NEI
FATTI SI E’ SOLO CREATO UN IBRIDO BUROCRATICO DOVE OGNUNO HA FATTO I PROPRI
COMODI
A Sarajevo torna il caos, a quasi vent’anni dalla fine di
quella guerra civile che tra il 1992 e il 1995 dilaniò il Paese. Gli accordi di
Dayton hanno permesso un armistizio tra Bosniaci, Serbi e Croati che si
contendevano quei territori all’indomani del dissolvimento della Jugoslavia. Ma
altro non si è fatto che creare uno Stato senz’anima, artificiale. E così in
questi giorni i nodi sono venuti al pettine, con una parte della popolazione
che sta manifestando contro anni di corruzione e soprusi dei politici. Sebbene
la situazione sia complessa e non si esclude la pista politica in vista delle
prossime elezioni di ottobre.
LA PROTESTA DI QUESTI GIORNI
- Tutto è iniziato mercoledì, a Tuzla, centro urbano dall’antica vocazione
industriale, oggi in fase di declino. C’è stato un corteo, a cui hanno preso
parte circa diecimila persone, così si riporta, organizzato dai lavoratori di
alcune aziende locali che hanno recentemente dichiarato il fallimento. I dimostranti
hanno accusato le istituzioni locali di passività e immobilismo, davanti a
questi casi. Non solo. S’è riavvolto il nastro degli ultimi e ci si è ricordati
che la politica ha dato il via libera a processi di privatizzazione opachi e
controversi, molto spesso anche in funzione dell’arricchimento personale.
Rabbia e frustrazione hanno preso il sopravvento, portando i
dimostranti a recarsi davanti alla sede del governo del cantone di Tuzla, su
cui è stato scagliato di tutto: dai sassi alle uova. La polizia, schierata in
difesa dell’edificio, ha risposto caricando. Ci sono stati dei feriti.
L’intervento degli agenti non ha fatto che peggiorare le
cose. Giovedì la gente è scesa in piazza, ancora più imbufalita, non solo a
Tuzla, ma in molte altre città del paese: Brcko, Sanski Most, Bihac, Zenica,
Mostar e via dicendo. In tutti i casi i manifestanti hanno preso di mira i
palazzi cantonali. Venerdì alcuni sono stati addirittura dati alle fiamme.
Quello di Sarajevo (ha preso fuoco anche la sede della presidenza), quello di
Zenica e quello di Tuzla, il cui inquilino ha rassegnato le dimissioni.
In ogni caso, prima di guardare in avanti e confidare in una
nuova stagione, è il caso di volgersi indietro. Negli ultimi anni ogni volta
che è scoccata una scintilla ci si è aggrappati alla speranza che questa stessa
scintilla potesse trasformare la Bosnia, salvo poi restare delusi. È stato così
anche recentemente, con la bebolucija, una protesta esplosa contro una paralisi
legislativa che ha fortemente discriminato i nuovi nati. Una protesta, rarità
in Bosnia, potenzialmente multietnica. Tempo poche settimane e la cosa è
scemata. Insomma: anche stavolta, fino a prova contraria, è lecito nutrire
qualche ragionevole dubbio sull’esito delle rivolte contro la casta. Perché di
questo, fondamentalmente, si tratta.
IL MOTIVO ECONOMICO - Con
ogni probabilità il fattore che più di ogni altro ha contribuito a queste
proteste è stato il pessimo stato dell’economia. La Bosnia vive una fase di
stagnazione (grafico). Il Pil è sceso considerevolmente quando è scoppiata la
crisi globale, poi c’è stata una ripresina (0,7% nel 2010 e 1,3% nel 2011),
seguita dalla recessione del 2012 (-0,7% ) e dallo 0,5% di quest’anno. Ma non è
l’unico problema. La disoccupazione ufficiale si attesta sul 25%, ma da molti è
ritenuta più alta, con tassi che lambirebbero il 60% tra i giovani. Tutto
questo si aggrava se analizzato in un contesto più ampio, di mancate
opportunità e stallo a livello di riforme. Questa, d’altronde, è la Bosnia.
Molto dipende dal sistema istituzionale partorito dalla pace
di Dayton, mediata dagli americani. Fu concepito allo scopo di tamponare
l’emergenza, ma ha creato un carrozzone burocratico impressionante, con
moltiplicazione di cariche, pesi e contrappesi, tutti pensati sulla base di
principi etnici, che hanno reso il fluire della vita politica lento, pieno di
strozzature. Ma anche la classe dirigente bosniaca ha le sue responsabilità
(facile d’altronde scaricare tutto sugli “internazionali”). I serbi si sono
trincerati nella loro entità, fregandosene della Bosnia in quanto tale. I
bosgnacchi e i croati hanno più o meno fatto lo stesso nei loro cantoni. Tutti
però hanno messo le mani nella marmellata, favorendo la sovrapposizione tra
affari e politica, con benefici agli uni e all’altra. Corruzione, criminalità
organizzata, assenza di trasparenza, privatizzazioni à la carte: la Bosnia è
diventato un grosso pantano. In pochi si arricchiscono, in molti stentano.
La bomba sociale, già preannunciata da una recente ondata di
scioperi, poteva tranquillamente scoppiare. Ed è scoppiata.
LA PISTA ETNICA E POLITICA -
Inevitabilmente, come ogni volta che in Bosnia succede qualcosa, qualcuno ha
subito cercato una chiave di lettura etnica, attingendo a qualche memoria di
guerra.
Approccio, questo, fuori misura. Di confronti etnici e
vecchi conti in sospeso, neanche l’ombra. Le rivolte sono scoppiate in città
dove la popolazione è in larga misura bosgnacca (musulmana). L’unica eccezione
è stata Mostar, dove i croati sono in lieve maggioranza. Ma in ogni caso il
sisma non è andato oltre i confini della Federacija Bosne i Hercegovine,
l’entità croato-musulmana del paese. In quella serba (Republika Srpska) non s’è
rilevato nulla di particolare. Nel capoluogo, Banja Luka, c’è stato un piccolo
presidio di solidarietà nei confronti dei dimostranti di Sarajevo, Tuzla e
delle altre città. Così riferiscono le cronache.
Qualche altro dubbio viene se si considera che, come tra gli
altri ha scritto anche Stefano Giantin, collaboratore del Piccolo di Trieste di
base a Belgrado, negli assalti alle sedi dei governi dei cantoni a schierarsi
in prima linea sono stati spesso dei giovani disoccupati, in apparenza
abbastanza manovrabili. Oltre a questo, ha scritto sempre Giantin, sui social
network, era stato anticipato nei giorni addietro l’arrivo della tempesta.
Suona un po’ sospetta, infine, la rapida diffusione a macchia d’olio della
protesta e l’assalto contemporaneo ai palazzi del potere, in quella che è
sembrata una sorta di riedizione in salsa bosniaca della tattica seguita dai
dimostranti ucraini, protagonisti di occupazioni di edifici governativi sia
nella capitale Kiev che in periferia.
Insomma, c’è qualche elemento che indurrebbe a credere che
dietro queste proteste possa esserci una regia. Ma, se davvero c’è stata, chi
l’ha coordinata? C’è uno scopo elettorale, legato al voto generale di ottobre?
C’è la volontà di mettere all’angolo i partiti tradizionali? C’è, in ultima
analisi, una guerra di potere, al momento catacombale, ma destinata a
deflagrare, in corso in Bosnia? Se la risposta a queste ultime tre domanda è
sì, allora i bosniaci saranno stati ancora una volta ingannati.
IL CONFLITTO SANGUINOSO – La
guerra in Bosnia ed Erzegovina è strettamente connessa con la disintegrazione
della Jugoslavia iniziata con l'indebolimento del governo post-comunista.
Infatti, nel caso della Jugoslavia, il comunismo perse la sua forza ideologica
e fece strada al rafforzamento del nazionalismo alla fine degli anni ottanta.
Emersero così tutte le contraddizioni di quei territori, con le varie etnie che
reclamarono la propria indipendenza.
Scoppiò così un atroce conflitto tra i Serbi che fecero
prevalere il proprio nazionalismo, croati, sloveni e bosniaci che reclamavano
la propria indipendenza. La dichiarazione d'indipendenza della Slovenia e della
Croazia avvenne il 25 giugno 199, a cui seguì la violenta reazione dei serbi,
causando la guerra dei dieci giorni in Slovenia e la sanguinosa guerra
d'indipendenza croata.
Tra campi di concentramento, rappresaglie, stupri, genocidi,
pulizie etniche, tra il 1992 e il 1995 ci sono stati 200-250mila morti, 50mila
torturati, 20mila casi di stupro. Vi erano state scavate 143 fosse comuni
contenenti da 3 a 3000 salme e vi erano stati organizzati 173 campi di
concentramento. A questi dati si aggiungano oltre 2milioni di profughi.
GLI ACCORDI DI DAYTON – La
guerra si concluse con la firma degli accordi stipulati a Dayton (Ohio), tra il
1º e il 26 novembre 1995. Parteciparono ai colloqui di pace tutti i più
importanti rappresentanti politici della regione: Slobodan Milošević,
presidente della Serbia e rappresentante degli interessi dei Serbo-bosniaci
(Karadžić era assente), il presidente della Croazia Franjo Tuđman e il
presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegović, accompagnato dal ministro
degli esteri bosniaco Muhamed "Mo" Sacirbey. La conferenza di pace fu
guidata dal mediatore statunitense Richard Holbrooke, assieme all'inviato
speciale dell'Unione Europea Carl Bildt e al viceministro degli esteri della
Federazione Russa Igor' Ivanov.
L'accordo (formalizzato a Parigi, il 14 dicembre 1995)
sanciva l'intangibilità delle frontiere, uguali ai confini fra le repubbliche
federate della RSFJ, e prevedeva la creazione di due entità interne allo stato
di Bosnia Erzegovina: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio
nazionale, 92 municipalità) e la Repubblica Serba (RS, 49% del territorio e 63
municipalità). Le due entità create sono dotate di poteri autonomi in vasti
settori, ma sono inserite in una cornice statale unitaria. Alla Presidenza
collegiale del Paese (che ricalca il modello della vecchia Jugoslavia del dopo
Tito) siedono un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi,
si alternano nella carica di presidente (primus inter pares).
Particolarmente complessa la struttura legislativa. Ciascuna
entità è dotata di un parlamento locale: la Repubblica Serba di un'assemblea
legislativa unicamerale, mentre la Federazione Croato-Musulmana di un organo
bicamerale. A livello statale vengono invece eletti ogni quattro anni gli
esponenti della Camera dei rappresentanti del parlamento, formata da 42
deputati, 28 eletti nella Federazione e 14 nella RS; infine della Camera dei
popoli fanno parte 5 serbi, 5 croati e 5 musulmani.
La spinta per la conclusione dei trattati si deve agli
americani, che inizialmente volevano restarne fuori, visto che in quelle zone
non vi erano particolari risorse economiche su cui mettere le mani. Ma la
pressione della comunità internazionale fu tale che l’allora Presidente Clinton
non poté esimersi.
A quanto pare, almeno che non si tratti della solita censura
dei media, la situazione pare essere ritornata alla calma. Ma è solo un rinvio.
La “bomba sociale” esploderà prima o poi e potrebbe provocare l’implosione di
tutto lo Stato.
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