GLI ITALOAMERICANI CONTRIBUIRONO PER VENDICARSI DEL FASCISMO
Tra il 9 e il 10 luglio 1943 gli americani sbarcarono in
Sicilia per cominciare la risalita della penisola e la cacciata dei
nazifascisti. Fu chiamata operazione Husky, a cui presero parte circa 160mila
uomini. Venivano così a liberarci, o forse è meglio dire che da quel momento in
poi sostituivano il presidio territoriale e l’influenza politica dei nazisti in
Italia.
Per questa impresa ebbero man forte della Mafia, che nella
prima metà del ‘900 aveva già messo radici negli Usa (grazie anche ai tanti
siciliani ivi emigrati ad inizio ‘900) e risentita dei duri colpi infertigli
dal regime fascista a partire dal 1924. Eppure di ciò nei libri di storia non
se ne parla affatto.
L’ARRIVO DI MUSSOLINI IN SICILIA
- Mussolini approdò in Sicilia, a Palermo il 6 maggio 1924. Era in programma
una visita ufficiale di quindici giorni. Da continentale aveva una visione vaga
della mafia, ma ben presto la sua conoscenza su quel fenomeno si sarebbe
approfondita.
Accompagnato in auto, a Piana degli Albanesi, dal sindaco di
quella cittadina, Francesco Cuccia, detto don Ciccio, che ostentava sul petto
la Croce di Cavaliere del Regno, pur essendo stato chiamato in giudizio per
omicidio in otto processi, tutti risolti per insufficienza di prove, Mussolini
avvertì un certo imbarazzo per il comportamento del notabile seduto al suo
fianco.
Don Ciccio, osservato che il suo ospite era seguito da
alcuni agenti, confidenzialmente diede un colpetto sul braccio di Mussolini e,
ammiccando, gli disse: "Perché vi portate dietro gli sbirri? Vossia è con
me. Nulla deve temere!". Mussolini non rispose, ordinò di fermare la
macchina e di far ritorno a Palermo.
Il giorno dopo ad Agrigento parlò ai siciliani e fu una
dichiarazione di guerra alla mafia: "Voi avete dei bisogni di ordine
materiale che conosco: si è parlato di strade, di bonifica, si è detto che
bisogna garantire la proprietà e l’incolumità dei cittadini che lavorano.
Ebbene vi dichiaro che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i
galantuomini dai delitti dei criminali. Non deve essere più oltre tollerato che
poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una
popolazione magnifica come la vostra".
LA CACCIATA DELLA MAFIA -
Mussolini rientrò a Roma il 12 maggio e il giorno dopo convocò i ministri De
Bono e Federzoni e il capo della polizia Moncada e chiese ad essi il nome di un
uomo idoneo a battere il fenomeno malavitoso siciliano (da “Benito Mussolini
nell’Italia dei miracoli”). Il prescelto era Cesare Mori che per la lotta alla
mafia si avvalse della preziosissima collaborazione del maresciallo Spanò.
In pochi anni la mafia venne stroncata, al punto che i così
detti "Pezzi da 90" furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti,
dove trovarono fertile terreno. Purtroppo il fenomeno mafioso fu stroncato, ma
non le sue radici, come vedremo.
A questo punto, e per completare gli antefatti del come
“siamo caduti così in basso”, dobbiamo andare con la mente allo sbarco dei
liberatori in Sicilia, ed esaminare, anche se sommariamente, il notevole
apporto dato dalla mafia siculo-americana alla riuscita dell’operazione dei
gangsters d’oltreoceano.
GLI AMERICANI PENSANO ALLA SICILIA
PER APPRODARE IN ITALIA - E’ noto che la Sicilia – più di ogni altra
regione italiana – manteneva da decenni stretti legami con gli Stati Uniti,
data la notevole emigrazione di siciliani in quel Paese.
L’apporto della mafia americana alla riuscita dello sbarco
in Sicilia è sempre stato minimizzato, o addirittura negato, dalle autorità
storiche alleate; ma la documentazione in merito è così ricca da contestare
l’assunto; e ciò è comprensibile, dato che fu una delle tante pagine vergognose
dell’intera vicenda.
I primi contatti con la malavita americana non riguardarono
l’operazione “Husky” (così fu indicato lo sbarco in Sicilia), vanno ricercati
nell’individuare dei battelli, battenti bandiera americana, che navigavano in
Atlantico, e che sin dai primi mesi del 1942 rifornivano di nafta, a peso
d’oro, i sommergibili tedeschi che, prolungandone le missioni in mare, facevano
strage di navi mercantili alleate. Per dar la caccia a questi “fornitori”, che
si supponeva appartenessero all’organizzazione mafiosa, il “Naval
Intelligence”, nella veste del comandante Radcliffe Haffenden, prese contatto
con Giuseppe Lanza, di origine siciliana e capo del mercato del pesce che,
coinvolgendo altri personaggi, fece sapere che se si voleva stroncare la rete
dei battelli atlantici, il personaggio all’uopo indicato era Lucky Luciano.
Dopo qualche tentennamento il “Naval Intelligence” inviò due alti ufficiali
della Marina U.S.A. ad incontrare Moses Polakoff, avvocato del gangster, e
tutti insieme si recarono nel carcere per un colloquio con l’influente detenuto.
Questi ottenne la revisione del processo che poi risulterà essere la strada per
il suo definitivo rientro, da uomo libero, in Italia. Lucky Luciano fornì le
informazioni necessarie, tanto che, in poche settimane, la Marina americana
riuscì a sgominare la rete che alimentava i sommergibili tedeschi.
Così, quando verso la fine del 1942 maturò l’idea di uno
sbarco in Sicilia, Haffenden si rivolse di nuovo a Luciano. Questi chiese di
essere messo in contatto con i suoi “colleghi” Joe Adonis e Franck Costello,
nonché Vito Genovese e altri; tutti insieme questi “gentiluomini”, tramite
oscure ramificazioni che erano sopravvissute ai duri colpi inflitti dal
prefetto Mori, e tra questi Calogero Vizzini, indiscusso capo della mafia
siciliana, si attivarono per favorire il programma predisposto dal
controspionaggio americano. Vizzini garantì alloggi e assistenza ad alcune
centinaia di agenti americani paracadutati o sbarcati nell’isola e fornì loro
informazioni militari di tale importanza che questi agenti, la notte dello
sbarco, riuscirono ad uccidere la maggior parte delle sentinelle che vigilavano
sui centri di comunicazione e di direzione delle artiglierie costiere.
Una delle funzioni di Adonis era identificare e reclutare
italo-americani con collegamenti in Sicilia. Nel maggio 1943 fu creata la
“Sezione F” che aveva il compito di radunare e selezionare la massa di dati che
venivano raccolti. Sempre in quel mese l’ammiraglio Hewit scoprì che non aveva
ufficiali che parlassero italiano. Hewit contattò prontamente Washington,
chiedendo che gli venissero forniti ufficiali qualificati per questo compito.
La richiesta fu accolta e vennero selezionati quattro ufficiali in possesso
delle qualifiche richieste. Questi fecero parte della prima ondata di sbarco e
presero terra nella fascia tra Gela e Licata. La loro missione consisteva nel
raccogliere informazioni sui campi minati e sui depositi militari dell’Asse.
SI RIVOLGONO ALLA MAFIA - Al
momento dello sbarco gli ufficiali americani della “Sezione F” erano in possesso
di un elenco di personaggi siciliani fornito dalla mafia di New York. La
maggior parte dei nomi dell’elenco risultarono essere personaggi della malavita
siciliana, come a guerra finita testimoniò uno degli ufficiali: il tenente Paul
A. Alfieri.
Ė opportuno citare almeno l’opera disgregatrice effettuata
dai gruppi di separatisti guidati da Finocchiaro Aprile. Questi poteva contare
sull’aiuto di personalità della nobiltà terriera siciliana che notoriamente
aveva, sin dai tempi di Nelson, forti legami con l’Inghileterra. Questi gruppi
antifascisti operarono dal 1942 con una serie di sabotaggi, il più notevole dei
quali fu condotto contro l’aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca.
Lo stesso clero siciliano – o almeno la maggior parte di
esso – non fu secondo nell’opera di disgregazione morale e di aiuto alle
iniziative alleate tese a svilire lo spirito combattivo dei militari.
Fino all’autunno del 1942 le intenzioni degli strateghi
angloamericani erano distanti dal solo esaminare la possibilità di un attacco
alla Sicilia, in quanto gli italiani, a detta di Alexander e di Montgomery, si
erano battuti bene in Africa, a maggior ragione, ritenevano, avrebbero difeso
con più forte motivazione il proprio territorio. E questo era sostenuto anche
dalla stampa internazionale. Ma ciò che, a nostro avviso, convinse ancor più
gli Alleati che la Sicilia era un obiettivo invitante, e dai rischi
strettamente militari relativamente circoscritti, era il fatto che
“Supermarina” già da alcuni mesi (esattamente dal 6 dicembre 1942) aveva
spostato la ancora temibilissima flotta italiana dai porti del sud Italia a
quelli, ben più distanti, al nord. La motivazione era di allontanarla da facili
offese aeree. E’ un fatto che gli alleati, dopo l’occupazione del nord Africa,
pur disponendo, quindi, di basi aeree tali da portare attacchi in qualsiasi
area del bacino del Mediterraneo, non sganciarono alcuna bomba sulla flotta
italiana.
Solo lo sviluppo delle situazioni sopra riportate convinse
Churchill e Roosevelt che la Sicilia era un obiettivo appetibile perché di
rischi limitati: anche se, poi, le cose non andarono esattamente come gli
angloamericani si aspettavano.
Le responsabilità dei personaggi incontrati in questo
capitolo furono notevoli, perché senza le loro manovre la guerra si sarebbe
decisa altrove, non avrebbe devastato il nostro Paese e non avremmo subito l’8
settembre con tutto ciò che quella data ancor oggi rappresenta.
L’AVVIO DELL’OPERAZIONE HUSKY
- L’invasione della Sicilia venne preceduta da mesi di terrorismo aereo,
coinvolgendo in questa operazione città piccole e grandi. Scrive Antonio
Falcone (“StoriaVerità”, N° 22): I bombardamenti a tappeto subiti da Messina
furono di tale intensità che alla fine non restava più da bombardare che le
macerie, cosa che gli alleati continuarono a fare con particolare accanimento.
Palermo arrivò a subire ben dodici incursioni nello spazio di 120 minuti: le
“fortezze volanti” si succedevano in formazioni di 50 per volta e aravano la
città in lungo e in largo scaricando a casaccio tonnellate di esplosivo. Nei
primi di luglio le incursioni diventarono ininterrotte, con il bombardamento
contemporaneo di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Agrigento, Trapani,
Augusta ed altri centri. Poi fu la volta dei centri minori, e poi anche quella
dei villaggi e persino delle campagne, dove gli incursori si divertivano a
mitragliare perfino i contadini intenti ai lavori. Il giorno e la notte
precedenti lo sbarco, l’offensiva raggiunse il massimo di intensità, tanto che
i pochissimi aerei italiani ancora in grado di combattere riuscirono ad
abbattere 58 apparecchi nemici in 48 ore. Come racconterà poi uno di questi
ultimi difensori del cielo siciliano, "le formazioni nemiche erano così
massicce che bastava sparare nel mucchio, alla cieca, per essere sicuri di
colpire. Al momento dello sbarco, l’isola era dunque completamente
disarticolata".
Veniva messa in pratica anche in Sicilia quella
“metodologia” studiata nei dipartimenti di Buchinghamshire, procedura da
adottare per la distruzione delle città nemiche. L’insediamento avvenne nel
marzo 1940: il Quartier Generale del “Bomber Command”, costituitosi
ufficialmente sin dal 14 giugno 1936 presso Uxbridge. Uno degli organizzatori
della nuova tecnica di guerra fu il già ricordato Sir Arthur Harris,
tristemente definito proprio dai suoi “the Butcher”, cioé “il macellaio”.
Fu proprio sulla Sicilia che vennero usate, verso la fine
del 1942, le prime bombe “block-buster” da 8.000 libre. Oltre alla morte che
proveniva dal cielo, si doveva lamentare la quasi totale distruzione degli
impianti, delle comunicazioni, della rete stradale e ferroviaria e, di
conseguenza, i rifornimenti dal continente si ridussero vicino allo zero e
l’amministrazione militare dovette provvedere a sfamare i civili. Edda Ciano, la
figlia del Duce, in quel momento si trovava in Sicilia quale crocerossina e
scrisse una lunga lettera al padre evidenziando le spaventose carenze
alimentari, mediche alle quali erano sottoposti i siciliani che, a suo dire, si
comportavano ugualmente con coraggio di fronte ai bombardamenti.
Lo scopo della “guerra totale” si stava raggiungendo in
quanto la popolazione esausta, affamata, attendeva l’arrivo degli invasori come
la fine di un incubo, come una “liberazione”.
Quanto sopra riportato è confermato dai verbali segreti
riguardanti una riunione presieduta da Hitler del 20 maggio 1943; riunione a
cui parteciparono von Keitel, Rommel, Neurath e parecchi altri alti ufficiali;
il manoscritto della riunione è custodito nella biblioteca dell’Università
della Pennsylvania. Hitler chiede notizie sulla situazione in Sicilia a Neurath
e questi risponde: "Sì, mio Führer, ci sono stato e ho parlato col
generale Roatta (in quel momento comandante della 6° armata italiana in
Sicilia, nda). Tra l’altro Roatta mi ha detto di non aver troppa fiducia nella
difesa della Sicilia. Ha sostenuto d’essere troppo debole e di avere truppe
male equipaggiate. Soprattutto ha una sola divisione motorizzata; le altre sono
fisse. Ogni giorno gli inglesi fanno del loro meglio per bombardare le
locomotive delle ferrovie siciliane, perché sanno benissimo che è quasi
impossibile portare materiale per sostituirle o ripararle, quando non sia
impossibile del tutto (…). Delle navi traghetto – credo che ce ne fossero sei -
n’è rimasta soltanto una (…)".
In questa situazione, appena sufficientemente tracciata, il
10 luglio 1943 le forze alleate mettevano piede sull’isola. Per la precisione,
i primi a toccare terra furono gli uomini di una Brigata aerotrasportata
britannica e un reggimento di paracadutisti americani dell’82° Divisione
partiti da Tunisi. Quest’operazione si sviluppò la sera del 9 luglio, cioè
sette ore prima degli sbarchi; l’intento era di prendere alle spalle le difese
costiere italiane. L’operazione risultò disastrosa per gli alleati: 61 velivoli
vennero abbattuti (alcuni addirittura dal “fuoco amico”), altri dovettero
rientrare alle basi o andarono dispersi. Solo dodici alianti britannici e circa
duecento paracadutisti americani poterono prender terra nei punti stabiliti. Ma
la maggior parte di essi venne catturata.
La mattina del 10 luglio, improvvisamente, la battaglia
divampò sul mare, nel cielo, e nella striscia di territorio costiero
corrispondente all’angolo sud-orientale della Sicilia, tra Licata e Augusta
LE NEFANDEZZE AMERICANE IN SICILIA
- Che la tensione nervosa e il timore dell’ignoto degli invasori fossero
elevati è l’unica giustificazione che si può concedere per le atrocità messe in
atto sin dai primi momenti degli sbarchi.
Si deve ad un paracadutista americano l’aver portato a
termine la prima “operazione bellica”: toccata terra nella campagna di Vittoria
(Ragusa), pugnalò un pastore accanto alle sue pecore. Questo non fu che
l’inizio delle efferatezze compiute dalle forze Alleate fino ad oggi poco o
affatto conosciute.
Il maestro Rocco Tignino di Licata, ben noto nel paese per
il suo antifascismo, capì subito che se gli americani entravano nel paese la
guerra era finita. Il maestro esce sul balcone esultante e per tre volte urla:
viva la libertà. Una raffica di mitra, sparata dagli americani, lo fulmina
all’istante.
Il podestà di Biscari Salvatore Mangano, suo figlio Valerio,
studente liceale, il fratello Ernesto, ufficiale medico in licenza dal fronte
russo, decisero di portare le proprie donne lontano dalla zona di sbarco e di
combattimento. Il prefetto indossava la divisa delle autorità fasciste per
facilitare il transito nel caso si fossero imbattuti in qualche posto di blocco
dell’esercito italiano. Tutti presero posto nella “Balilla” di proprietà del
prefetto e si avviarono a Modica, piccolo centro in provincia di Ragusa.
"Arrivati a metà strada della provinciale Acate-Vittoria, l’auto venne
fermata da una pattuglia di americani che da qualche ora avevano raggiunto
quello snodo viario". Gli americani fecero scendere gli occupanti; gli
uomini da una parte, le donne dall’altra. Benché disarmati furono fucilati sia
il Podestà che il figlio Valerio. "Molte autorevoli testimonianze vogliono
che il figlio fosse stato ucciso nell’atto di scagliare un sasso in faccia agli
esecutori per vendicare l’ingiustificata e gratuita morte del padre. Raccontano
anche che sia stato trovato abbracciato al padre col volto imberbe sfregiato da
un’arma da taglio (forse un colpo di baionetta)". Certamente anche il
capitano medico Ernesto Mangano venne ucciso insieme a parecchi altri “ritenuti
pericolosi”, in quanto di lui non si ebbero mai più notizie.
Carlo D’Este, nome italiano di un ufficiale americano,
autore del libro “1943: lo sbarco in Sicilia”, scrive che la difesa
italo-tedesca fu costretta ad arretrare e a concentrarsi intorno agli aeroporti
di Comiso e Biscari. Alla difesa partecipavano soprattutto i militari della
“Livorno” e reparti della 219° Divisione Costiera. L’attacco era portato dagli
americani della 45° Divisione, comandata dal generale Patton, e in particolare
su Biscari operavano i fanti del 180° Reggimento. Carlo D’Este a pagina 254 e
seguenti scrive: "La lotta prolungata per la conquista del campo
d’aviazione di Biscari diede origine al primo ripugnante incidente della campagna.
In due episodi separati, settantatre prigionieri di guerra italiani, furono
massacrati da un capitano e da un sergente del 180° Reggimento della 45°
Divisione. Gli scontri, che erano iniziati il giorno D tra le due forze
avversarie, si erano fatti accaniti intorno alla strada provinciale 115. Prima
dell’invasione, Patton aveva parlato personalmente all’intera divisione e aveva
avvertito le sue truppe di ciò che le aspettava in Sicilia: (dalla
documentazione che più avanti presenteremo, Patton) “ammonì (i suoi uomini,
nda) di fare molta attenzione nei casi in cui i tedeschi o gli italiani
avessero alzato le mani mostrando l’intenzione di arrendersi. Affermò che
qualche volta il nemico si comportava in quel modo per far abbassare la guardia
ai soldati. Patton avvertì i membri della 45° Divisione di stare attenti a
quell’insidia e di ‘uccidere quei figli di puttana’, a meno che non fossero
certi della loro reale intenzione di arrendersi”. Da parte sua il colonnello
Federeck E. Coockson, della 180°, affermò che le parole del generale Patton
bisognava interpretarle nel giusto significato: "Vero è che desiderava una
Divisione di killers e che durante i combattimenti non dovevamo prendere
prigionieri".
Continua D’Este: "Vicino all’aeroporto di Biscari, il
14 luglio una forza di fanteria incominciò a essere bersagliata
dall’artiglieria pesante e dal fuoco dei tiratori scelti. Durante lo scontro
che ne seguì dodici uomini furono feriti dalle granate prima che la piccola
forza nemica si arrendesse. Risultò che si trattava di un gruppo di trentasei
italiani, parecchi dei quali indossavano abiti civili. Il comandante della
compagnia di fanteria ordinò di uccidere i prigionieri, al che essi furono
allineati sull’orlo di una vicina fossa e giustiziati da un plotone di
fanteria. Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò
quarantacinque italiani e tre tedeschi". Un sottufficiale americano
ricevette l’ordine di scortare i prigionieri nelle retrovie per essere
interrogati. "Dopo circa un chilometro e mezzo di strada il sergente
ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata dove furono
allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei “figli di puttana”, il sergente si
fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporal maggiore e freddamente
eliminò gli sventurati italiani".
Gli ispiratori e gli autori di questo massacro furono, oltre
al generale Patton, il capitano John T. Campton che impartì l’ordine, e il
sergente Horace T. West che l’eseguì. Lo stesso sergente West, nel corso del
giudizio, affermò "che nel corso del trasbordo, fecero ricorso all’uso di
droghe". Lo stesso sergente, sempre nel corso dell’inchiesta, fra l’altro
disse: "Sin dai primi combattimenti, ebbe l’impressione che i soldati
tedeschi fossero molto crudeli; ma non da meno furono i soldati americani che,
alle prime case che visitarono, rastrellarono e rubarono tutto ciò che era
commestibile e violentarono le donne che vi vivevano, alla presenza dei
bambini".
I due episodi non passarono inosservati e il generale Omar
Nelson Bradley, comandante del Secondo Corpo d’Armata, ordinò che gli autori
fossero immediatamente deferiti alla Corte Marziale, con l’accusa di
“premeditato assassinio di 84 prigionieri di guerra”.
La Corte Marziale a fine agosto 1943 sentenziò la non
colpevolezza del generale Patton e del capitano Campton; mentre il sergente
West fu condannato all’ergastolo. Dopo un anno di prigione, la condanna del
sergente fu commutata in servizio di prima linea. Il capitano Campton, ripreso
servizio, morì durante un’azione di guerra.
Dalla Seconda guerra mondiale in poi l’America ha utilizzato
lo strumento dell’attacco militare nel Mondo per propri fini economici e
politici, spacciandoli per benevola esportazione della democrazia; il tutto
aggravato da una patetica “doppia morale”. Alla Sicilia non resta che la magra
consolazione di essere stata tra i primi territori oggetto di questa strategia opportunista
americana.
(Fonte: Dal 25 luglio a Piazzale Loreto, di Filippo Giannini)
noi siamo dal 45 una succursale degli U.S.A...
RispondiEliminaIo ultimamente sto leggendo un libro su Libero Grassi (imprenditore palermitano ucciso dalla mafia).....e mi sta appassionando non poco..........ma il punto è si riuscirà mai a sradicarla........bahhhhh
RispondiEliminarita
ormai lo sanno tutti
RispondiEliminafulvio