Il 5 febbraio 1936, Tempi Moderni venne presentato al pubblico del Rivoli Theatre di
New York. Chaplin non andò. Il feeling con l’America era offuscato da tempo
Il 5 febbraio 1936, uno dei capolavori di Charlie
Chaplin veniva presentato al pubblico del Rivoli Theatre di New York: Tempi
Moderni. Chaplin non si presentò, dato che il rapporto con gli Stati Uniti era
declinato da tempo. E questo film era una chiara critica al capitalismo e al
fordismo. Ci fu un’altra première, questa volta a Londra, e poi una terza, un
evento glamour a Hollywood. Finalmente Chaplin e Paulette Goddard presenziarono.
L'IDEA ALLA BASE DEL FILM - Tempi
moderni è una delle pellicola che meglio esprimono il cinema di Chaplin. Quello
capace di farti ora ridere, ora commuovere, ora rilassarti, ora farti
riflettere. La pellicola ha visto una lunga gestazione, aveva comportato scelte
difficili. Luci della città risaliva a 5 anni prima, ed era stato proprio
durante quel tour promozionale in Europa che Chaplin aveva avuto modo di
rendersi conto delle miserabili condizioni in cui versava il vecchio
continente. Sebbene la sonorità avesse ormai preso il sopravvento nel cinema,
Chaplin la ridusse al minimo, conservando ancora quanto possibile la magia del
cinema muto.
Incamerando la lezione di Max Weber, di Ghandi (una
conversazione con il Mahatma fu tra le fonti di ispirazione) e anticipando
Orwell, il vagabondo si converte allora in operaio fordista, alienato dalla
catena di montaggio. Il film del resto si apre con la ripresa di un gregge di
pecore al rientro nell’ovile. Di gregge in gregge, grazie a una sapiente
dissolvenza, si passa a una massa di operai che procede a gran spintoni fuori
da una stazione della metropolitana nell’ora di punta diretta a grandi passi
verso la fabbrica che li ingoierà.
LA STORIA - Chaplin in
versione operaio si vede alle prese con una macchina diabolica, quasi
incontrollabile. Una idea conflittuale di modernità, per un film che anticipa
tanti temi ancora oggi tristemente attuali: l’alienazione, le macchine che
creano disoccupazione, gli schermi televisivi del Grande fratello che
controllano i tuoi passi. Nove anni dopo Metropolis, Chaplin consegna allora al
mondo la propria teoria economica, l’utopia che vorrebbe una distribuzione più
equa non solo della ricchezza, ma anche del lavoro.
Una trasposizione cinematografica delle idee marxiste, che
si conclude con i due protagonisti che se ne vanno verso l'orizzonte e verso la
libertà, dopo averne passate tante. Ma prima ancora c'è il famoso sottofinale, con
Chaplin che canta Je cherche après Titine, la celebre canzoncina nell’esperanto
reinterpretato prodotto dal bisogno, dalla fame, dall’impazienza del pubblico.
In un’intervista del 1931 l’autore spiegava: «La
disoccupazione è il problema centrale dei nostri giorni. E le macchine
dovrebbero lavorare per il bene dell’umanità, non per sostituirla». Sono
passati ottant'anni e sembra essere cambiato poco. Se la prima metà del
Novecento aveva trasformato gli operai in semplici bulloni asserviti alla
retorica della Patria, la Globalizzazione li ha resi schiavi senza padroni
identificabili.
Nessun commento:
Posta un commento