LE MOTIVAZIONI DI MASSIMO FINI IN RISPOSTA A MARCO TRAVAGLIO.
PENA SOSPESA, MA NON CI SAREBBE COMUNQUE ANDATO
Intorno al caso Sallusti che rischia il carcere (pena
confermata dalla Cassazione ma poi sospesa dalla Procura) si è creato un
movimento solidale bipartisan; il che, in Italia, mi spaventa sempre un po’.
Anche la stampa di sinistra ha solidarizzato con il direttore de Il Giornale;
cosa che ad esempio non ha fatto il suo collega Filippo Facci su Libero, il
quale ha invece elencato i dieci motivi per cui non rischierebbe di andare in
carcere, quasi a ridicolizzare questa ostentata solidarietà in suo favore. Ma
tra i due non scorre certo buon sangue.
In controtendenza (come sempre) anche Massimo Fini, per niente
d'accordo con l'articolo di Marco Travaglio datato 22 settembre in cui il
vicedirettore del Fatto ritiene ingiusto, e quasi obbrobrioso, che il direttore
del Giornale Alessandro Sallusti rischi di scontare un anno e due mesi di
carcere in seguito a una condanna che la Corte d'appello di Milano gli ha
inflitto per aver diffamato, su Libero, un giudice tutelare di Torino. Correva
l’anno 2007. Bolla la sua posizione come una “difesa corporativa”. Ecco perché.
GIORNALISTI COME CORPORAZIONE
– Scrive Massimo Fini su Arianna
editrice: “Noi giornalisti siamo una corporazione, attenti, come ogni altra
corporazione, a mantenere i nostri privilegi (in oltre sessant'anni di vita
repubblicana un solo giornalista, che io ricordi, ha scontato effettivamente il
carcere: Giovannino Guareschi che aveva diffamato il presidente della
Repubblica, Luigi Einaudi).
A differenza di Travaglio io considero Sallusti un ottimo
professionista, lo stimo come tale e ne sono ricambiato tant'è che più volte, e
ancora pochi mesi fa, mi ha proposto di andare a lavorare per i giornali che
dirige (ma io non posso, non ho la disinvoltura dei Santoro e dei D'Alema).
Ma qui non è in discussione se Sallusti sia o meno un ottimo
collega, sono in gioco questioni di principio come dice lo stesso Travaglio
("ciò che conta è il principio"). E questa volta Travaglio, in genere
così lucido e incisivo, si ingarbuglia in un articolo insolitamente faticoso e
contorto.
Prima scrive che il carcere dovrebbe essere riservato ai
delitti dolosi, poi che "in tutti i Paesi civili nessun giornalista può
rischiare in prima battuta il carcere per quello che scrive... neanche se è
intenzionalmente diffamatorio". Il diffamato, secondo Travaglio, dovrebbe
accontentarsi della rettifica, solo se questa non c'è potrebbe adire le vie
legali, penali e civili.
Il fatto è che il nostro Codice penale non fa distinzione
fra diffamazione dolosa e colposa e non prevede che la rettifica sia esaustiva.
Se la Cassazione confermerà la sentenza della Corte d'appello Sallusti deve
andare in carcere, come qualunque altro cittadino che sia nelle sue stesse
condizioni. Che la legge debba essere "uguale per tutti" è proprio
una battaglia del Fatto, quasi la sua ragione sociale, e non possiamo
sconfessarla perché oggi nei guai è un nostro collega, simpatico o antipatico
che sia. Noi giornalisti non siamo cittadini speciali, killer con la
"licenza di uccidere" come gli agenti della Cia.”
LE RIFORME CHE ANDREBBERO FATTE
– “Si debbono fare delle riforme sulla questione della diffamazione a mezzo
stampa.
1) Un tempo, quando le persone avevano più a cuore il
proprio onore che i quattrini, si querelava "con ampia facoltà di
prova". Se il giornalista dimostrava di aver scritto il vero era a posto.
La "facoltà di prova" dovrebbe essere resa obbligatoria in ogni
procedimento penale per diffamazione.
2) Dovrebbero essere inibite le azioni civili di danno prima
della querela penale. Perché nell'azione civile quel che conta, più della
verità dei fatti, è il danno e anche un ladro può essere danneggiato se viene
definito ladro "in termini non continenti". La definizione è talmente
generica e vaga che il giornalista viaggia col freno a mano tirato. Se io
attraverso col rosso so di aver commesso un'infrazione. Se uccido un uomo so
che è un omicidio. Ma quali sono i termini non continenti?
3) Ha ragione Travaglio quando scrive che i politici
inondano i giornalisti con azioni penali e civili per diffamazione con
richieste milionarie di risarcimento che sono chiaramente intimidatorie. Se un
presunto diffamato perde la causa dovrebbe essere obbligato a pagare una penale
proporzionata alla sua richiesta. Così ci penserebbe due volte. Il
corporativismo dei giornalisti è anche una delle cause per cui non si riesce a
risolvere l'annosa questione delle intercettazioni”.
GLI INTERESSI IN GIOCO – “Qui
sono in gioco tre interessi contrastanti.
1) L'interesse all'efficacia delle indagini e quindi a una
efficiente amministrazione della Giustizia.
2) L'interesse del cittadino, coinvolto a qualsiasi titolo
in un procedimento pena-le, a non veder lesa anzitempo la propria reputazione.
3) L'interesse del giornalista a informare e, soprattutto,
quello della comunità a essere informata. Sappiamo benissimo che i
berlusconiani (e non solo loro) vorrebbero limitare al massimo le
intercettazioni perché hanno la coda di paglia. Non è questa la strada. Oggi
per i reati associativi, soprattutto quelli finanziari, in una società
complessa come l'attuale, le intercettazioni, telefoniche e ambientali, sono
uno strumento indispensabile e la magistratura deve poterlo utilizzare, anche a
tappeto”.
Degli altri due interessi in gioco, nella fase istruttoria
deve prevalere quello della difesa dell'onorabilità delle persone, perché nella
fase delle indagini preliminari, inevitabilmente incerta, a tentoni, possono
essere coinvolte, con dettagli scabrosi sulla loro vita privata ma del tutto
irrilevanti, persone che risulteranno poi estranee al procedimento in corso e che
hanno il sacrosanto diritto alla tutela della loro privacy. Al dibattimento il
discorso si capovolge: l'interesse della comunità a essere informata prevale su
quello della tutela dell'onorabilità degli indagati e anche dei comprimari,
perché in quella fase arrivano solo i materiali effettivamente utili al
processo. Questo (istruttoria segreta, dibattimento pubblico) era il sistema
del Codice penale di Alfredo Rocco che sarà stato anche un fascista, ma era un
giurista di primissimo ordine. Oggi siamo in mano a dei dilettanti allo
sbaraglio e, quasi sempre, anche in malafede.”
LA VICENDA – Ma cosa ha fatto
Sallusti? Nel febbraio del 2007 la Stampa rese nota la vicenda di una ragazzina
di 13 anni autorizzata dal Tribunale di Torino ad abortire: la notizia ovviamente
innescò una serie di polemiche e Libero, a quel tempo diretto da Sallusti,
dedicò al fatto un articolo e un corsivo firmato con uno pseudonimo, Dreyfus.
Né nell'articolo, né nel commento è stato fatto il nome del magistrato
querelante. "Qui ora esagero", si legge nel corsivo incriminato,
"Ma prima di pentirmi lo scrivo: se ci fosse la pena di morte e se mai
fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori,
il ginecologo, il giudice".
Tanto basta a Cocilovo per sentirsi offeso. Il bello è che i
suoi colleghi gli danno ragione: senza che la Procura compia alcuna indagine
per individuare l'autore dell'articolo il Tribunale di Milano a gennaio 2009
processa e condanna Sallusti a pagare 4000 euro di ammenda non solo per "omesso
controllo" come accade abitualmente ai direttori di giornale, ma
direttamente per diffamazione aggravata. Al giudice Cocilovo non basta però.
Lui e la Procura impugnano. E in appello, il 17 giugno 2011 arriva la batosta:
14 mesi di carcere e la condizionale negata perché, oltre agli altri
procedimenti penali subìti da Sallusti come giornalista, se lasciato a piede
libero potrebbe commettere altri reati.
DIFFICILE CHE VADA IN CARCERE
- Probabilmente, come sostiene il succitato Facci, il carcere non lo rischia
perché essendo la sua pena inferiore ai 3 anni e non essendo quindi
immediatamente esecutiva, occorrerebbe attendere che la Cassazione notifichi la
sua decisione alla procura di Milano (e già qui passa del tempo) e poi che la
Procura faccia eguale notifica ai legali di Sallusti (altro tempo che passa)
sinché da quel momento, cioè dalla ricezione, gli avvocati avrebbero altri 30
giorni di tempo per proporre delle pene alternative come per esempio il
classico affidamento ai servizi sociali. La semi-libertà no, perché la pena
supera i sei mesi.
Insomma da qui al carcere ce ne vuole, ma in Italia non si
perde mai occasione per fare a gara di ipocrita solidarietà.
io spero che serva di lezione a quei giornalisti cafoni che raccontano palle...un pò di sana strizza.
RispondiEliminaSe Sallusti si è beccato 14 mesi, per Travaglio non basterebbero 14 ergastoli
RispondiEliminaalessandro
anche tu su Sallusti? grazie per le info
RispondiElimina(io ahimé sto doventando sempre più viscersle e vendicativa.. ;)
ciao
teoricamente sì, per alcuni è più uguale che per gli altri
RispondiEliminaluigi