LO STATUTO DEI LAVORATORI ORMAI GARANTISCE SOPRATTUTTO UN
RIMBORSO SENZA REINTEGRO. TANTI SONO I CASI DI REINTEGRI INGIUSTI, MENTRE LA
CGIL CI GUADAGNA
L’Articolo 18 torna nelle mire del Governo di turno, per la
solita logica che, riducendo i diritti dei lavoratori, si facilitano le
assunzioni. Una ratio portata avanti dalla Riforma Treu del ’97. Eppure la
disoccupazione si è stabilizzata su cifre alte ormai da anni, raggiungendo
livelli drammatici tra i giovani e le donne. Dunque, sarebbe forse il caso di
far leva più sulla pressione fiscale che grava sul Mondo del lavoro anziché
sulla stabilità lavorativa. Ma il dibattito sullo Statuto dei lavoratori ha
occupato l’agenda politica per settimane, con il ritorno a galla di molti ex
diessini che erano scomparsi per un po’, come l’evergreen D’Alema e Pierluigi
Bersani (anche se lui pure per problemi di salute). Paventando perfino
un’ipotesi scissione nel Partito democratico. La verità però è che lo Statuto
dei lavoratori, istituito nel 1970, è già stato depotenziato e di molto dalla
Riforma Fornero, per non parlare del fatto che già da anni non vale per la
stragrande maggioranza delle tipologie contrattuali. Inoltre, bisogna anche
aggiungere che tanti sono i casi assurdi di reintegro, mentre la CGIL su ogni
causa ci guadagna non poco. Il tutto, fermo restando che comunque non si creano
nuovi occupati togliendo certezze a chi un lavoro già ce l’ha.
COS’E’ L’ARTICOLO 18 E PER CHI VALE
– Intanto partiamo dall’Abc. Il riferimento è alla norma dello Statuto dei
lavoratori, approvato nel 1970, che prevede un meccanismo di tutela reale, e
non risarcitoria, del lavoratore illegittimamente licenziato, ovvero il diritto
a essere reintegrato nel suo posto di lavoro.
Nel 1990, la misura del reintegro fu attenuata per le
imprese fino a 15 dipendenti (e quelle agricole fino a 5), ovvero il 97 per
cento delle aziende italiane, prevedendo la misura della riassunzione (meno
onerosa) e quella risarcitoria. Due i motivi: garantire più flessibilità alle
imprese meno strutturate e tenere conto della oggettiva difficoltà, per una
piccola impresa, di inserire nuovamente nel ciclo produttivo un lavoratore con
cui si è rotto il rapporto fiduciario.
Oggi, circa due terzi
dei lavoratori nelle imprese private (otto su dodici milioni) lavora in imprese
con più di 15 dipendenti ed è interessato al dibattito sull’articolo 18.
COM’E’ CAMBIATO CON LA RIFORMA
FORNERO - Nel 2012, il governo Monti e il Parlamento hanno modificato la
disciplina sui licenziamenti. Prima della riforma, anche un vizio formale del
licenziamento (mancata o imprecisa contestazione, intempestività...) dava luogo
al reintegro. Dopo la riforma, il giudice deve distinguere: il reintegro resta
solo se il fatto su cui è basato si rivela «insussistente» (l’imprenditore dice
che l’operaio ha rubato, ma non è vero; l’imprenditore dice che l’operaio
arriva tardi in azienda, ma i cartellini risultano timbrati in orario;
l’imprenditore dice che l’ufficio viene chiuso e l’impiegato non serve più, in
realtà fa fare lo stesso lavoro a un altro che ha appena assunto). Insomma, se
l’azienda la fa proprio sporca. In tutti gli altri casi (quindi tutte le
violazioni formali e quelle sostanziali purché non manifeste), anche se accerta
l’illegittimità, il giudice non può più reintegrare il lavoratore, ma solo
stabilire un risarcimento tra dodici e ventiquattro mensilità.
Una cosa è certa: l’applicabilità della tutela del reintegro
in caso di licenziamento illegittimo è stata ridotta, quella del risarcimento
ampliata. Sui nuovi confini, i giudici si stanno esprimendo con non poche
difficoltà interpretative. In generale, il reintegro resta solo nei casi
estremi di palese violazione da parte del datore di lavoro. Nei casi in cui le
prove non sono univoche, c’è il risarcimento. Nell’incertezza, aumenta
l’incentivo a trovare un accordo economico. Anche il lavoratore che ritiene di
essere stato licenziato ingiustamente, è indotto a rinunciare all’azione
giudiziaria, dal momento che il giudice, anche dandogli ragione, potrebbe alla
fine non reintegralo bensì corrispondergli un risarcimento. Allora, come si
dice, meglio «pochi maledetti e subito».
No. Sia prima che dopo la riforma Fornero, il reintegro
resta la sanzione naturale ai licenziamenti discriminatori (orientamenti
sessuali, religione, opinioni politiche, attività sindacale, motivi razziali o
linguistici, handicap, gravidanza, matrimonio, malattia) a prescindere dal
numero di dipendenti dell’impresa. «L’articolo 18 che esiste attualmente è ben
lontano da quello originario dello Statuto dei lavoratori e di fatto esiste
solo per i licenziamenti discriminatori», ha detto a Radio Radicale Donata
Gottardi, docente di diritto del lavoro all’università di Verona ed ex
europarlamentare del Pd.
COSA VUOLE FARE RENZI – Renzi
vuole eliminare il reintegro in tutti i casi, eccetto i licenziamenti
discriminatori. In uno scambio di sms con il governatore del Piemonte Sergio
Chiamparino, pubblicato da Paolo Griseri sul quotidiano «La Repubblica», si
ipotizzavano alcune proposte più specifiche.
In sintesi, la disciplina che verrebbe fuori sarebbe questa:
se il lavoratore ritiene di essere stato licenziato ingiustamente, non può
rivolgersi al giudice ma solo a una commissione arbitrale. «Il giudice non ci
deve mettere becco», scrive Chiamparino in un sms. Non si capisce ancora chi
sceglie l’arbitro, tra quali soggetti, e chi lo paga, ma è evidente l’intento
di «degiurisdizionalizzare» la materia. In ogni caso, l’arbitro può stabilire
che il licenziamento è giustificato (e allora il lavoratore paga le spese e non
ha diritto al risarcimento) oppure che è illegittimo. In tal caso, decide la
misura del risarcimento, minore rispetto a quello oggi previsto. Il reintegro
resterebbe solo in caso di licenziamento discriminatorio, ma con una «casistica
molto limitata» di «violazione di diritti civili e politici». Ritenendo di
essere stato discriminato, il lavoratore si rivolgerebbe al giudice. Ma
cambierebbero anche le regole della prova, che sarebbe invertita: da un lato,
l’azienda sarebbe garantita da una «presunzione di giusta causa» quando
licenzia (non deve dimostrare la negligenza del lavoratore, è il lavoratore a
dover dimostrare che l’azienda sbaglia); dall’altro, il lavoratore sarebbe
gravato dall’onore di provare la discriminazione (il che è talmente difficile
che l’Unione Europea ha emanato nel 2000 una direttiva per alleviare l’onere
probatorio del lavoratore).
In sintesi, dunque, i casi di reintegro sarebbero ridotti
ancora di più e si andrebbe sempre più verso un risarcimento.
I CASI ASSURDI DI REINTEGRO -
Accusa la amministratrice delegata di prendere certe decisioni «perché ha le
mestruazioni»: licenziato. Ruba sulla nota spese della trasferta: riassunto.
Manda un comunicato sindacale usando la mailing list aziendale: licenziato. Dà
dell'ignorante all'amministratore delegato: riassunto. Colpisce con le tette la
caporeparto, dileggiandola perché è piatta: licenziata. E così via, in una
altalena di sentenze a dir poco imprevedibile, dove la certezza del diritto
diventa un terno al lotto. E tutto in nome dell'articolo 18, il famoso articolo
dello Statuto dei lavoratori su cui Matteo Renzi ha deciso di giocarsi una
bella fetta della sua immagine di riformatore vero o presunto.
Il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto di essere
riassunto, dice in sostanza l'articolo. Ma chi decide dove sta l'asticella del
«giustamente»? Il tribunale, la Corte d'appello, la Cassazione? La riforma
Fornero del 2012 doveva velocizzare e razionalizzare i processi, ma non tutti
sono d'accordo che i risultati siano stati raggiunti. «Quattro fasi processuali
(o forse cinque, se la Cassazione annulla la sentenza della Corte d'Appello con
rinvio), per sapere se il licenziamento è legittimo o illegittimo, sono
troppe», ha scritto il giuslavorista Stefano Trifirò. I tempi stretti imposti
dalla legge Fornero, quaranta giorni per la prima decisione, d'altronde valgono
solo in qualche parte d'Italia: a Milano in meno di due mesi arriva la
sentenza, a Palermo capita di dover aspettare quasi un anno.
Ma la lotteria vera, oltre che sui tempi, è sulla decisione.
È qui che l'incertezza si fa quasi totale. È finita l'epoca in cui i tribunali
(e le preture, fin quando sono esistite) partivano quasi sempre dalla parte del
lavoratore. Negli ultimi anni si sono rarefatte anche le sentenze decisamente
clamorose, come quelle che ordinarono il reintegro di uno dei facchini di
Malpensa scoperti a svuotare i bagagli dei passeggeri, o del bigliettaio che
sui vaporetti di Venezia si intascava il resto destinato ai turisti. E anche la
sentenza più eclatante di questi anni, il reintegro nella fabbrica Fiat di
Melfi dei tre sindacalisti della Fiom licenziati con l'accusa di sabotaggio, è
sembrata figlia più di scelte politiche che di svarioni giuridici.
Ma per capire l'oggetto del contendere, più dei casi limite
serve guardare alla quotidianità, quella delle aule delle sezioni lavoro dei
tribunali dove ogni giorno l'articolo 18 viene invocato per ottenere il
reintegro. Un testa o croce, anche nelle statistiche: degli 824 ricorsi
presentati dall'inizio dell'anno al 30 giugno, il tribunale di Milano ne ha
respinti il 55 per cento e accolti il 45. Sono storie di gente licenziata «per
motivi economici», che già oggi ha grande difficoltà a ottenere il reintegro
(serve dimostrare la «manifesta infondatezza»), e che la riforma di Renzi
costringerà definitivamente ad accontentarsi del risarcimento; ma anche di
lavoratori espulsi per motivi disciplinari, per i quali l'ordine del giorno del
Pd sembra lasciare qualche chance di vedersi restituito il posto di lavoro.
I REINTEGRI, UN AFFARE PER SINDACATI
E AVVOCATI - Ti comunicano il licenziamento, che fai? Chiedi aiuto a un
patronato sindacale, o a un ufficio vertenze di un sindacato per cercare un
accordo con l'azienda, o per portarla in tribunale. Il sindacato, come prima
cosa, chiede l'iscrizione. Nel caso della Cgil il «costo tessera all'apertura
della pratica» consiste in 100 euro. Poi le percentuali per la consulenza, che
nel caso di un nuovo iscritto sono del 10% per vertenze fino a 10mila euro di
valore, e scendono al 4% se l'indennizzo al lavoratore supera i 20mila euro.
Queste le tariffe praticate dai sindacati più grossi, che
già contano su altre (e notevoli) entrate. Ma i più piccoli possono arrivare a
chiedere anche il 25% di commissione su una causa di lavoro. Un ottimo
incentivo a promuoverle, a spingere il lavoratore a fare ricorso, e a chiuderla
con un accordo-risarcimento in sede stragiudiziale, cioè con una conciliazione
che evita di andare in tribunale, e quindi senza appoggiarsi a studi legali e
avvocati che a loro volta chiederebbero una parcella.
Un enorme giro di denaro, dunque, anche attorno all'articolo
18, se si conta che l'Istat in un'indagine del 2013 ha contato più di un
milione di italiani coinvolti in cause di lavoro, in corso o passate. «Parliamo
di diverse decine di milioni di euro l'anno di incassi per i sindacati - stima
la dottoressa Loredana Fossaceca, dell'associazione Assofamiglie -. Tutti
esentasse, tra l'altro, poiché contabilizzate come dazioni dei soci, non come
un'entrata sottoposta a tassazione». Cioè faccio causa, l'azienda mi propone un
indennizzo di 10mila euro, al sindacato giro il contributo di mille euro per la
consulenza, che figurano come una mia donazione, da socio, all'associazione
sindacale. Quindi mille euro netti, puliti, esentasse. Secondo l'Espresso
soltanto l'ufficio vertenze della Cgil-Lazio avrebbe incassato in un anno circa
un milione di euro. La Cisl, in Lombardia, dal 2009 al 2013 ha recuperato 200
milioni di euro dalle vertenze, mentre a Bergamo e provincia le tre sigle
(Cgil, Cisl e Uil) hanno assistito 6.400 persone nel 2013 recuperando 27
milioni di euro tra diritti al risarcimento, riconoscimento dei diritti lesi e
mancati pagamenti. Se prendiamo una media del 5% di contributo, ai sindacati
sono andati 1,35 milioni di euro, solo in provincia di Bergamo. Un settore,
insomma, che non conosce crisi, anzi lievita con le crisi aziendali.
Di questa mole enorme di ricorsi beneficiano gli avvocati, e
poi i sindacati. Che hanno un altro vantaggio. Dal 2002 è stato introdotto un
«contributo unificato» per proporre un giudizio in materia civile,
amministrativa o tributaria, con importi a seconda del valore della controversia.
Una tassa che a ogni legge di Stabilità è stata aumentata. Nel 2013 però il
ministero della Giustizia ha chiarito, con una circolare, quali sono i casi e i
soggetti esentati dal contributo unificato. Chi? I sindacati.
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