Sono ancora più di
mille i pazienti psichiatrici curati, in ospedali pubblici e cliniche private,
con un metodo ottocentesco e controverso
La compianta Alda Merini ne accennava in alcune sue
splendide poesie, per esperienza diretta. Ma oltre che nei suoi versi,
l’elettroshock è una pratica ancora esistente in molti ospedali italiani
pubblici e privati, e ne sono sottoposti più di mille pazienti psichiatrici.
Una pratica medica per curare depressione e psicosi inventata nell’ottocento,
verso la quale la comunità scientifica si divide ancora.
DOVE E SU QUANTI SI PRATICA -
Oltre 1400 pazienti nel triennio dal 2008 al 2010 (secondo gli ultimi dati
presentati dal ministero della Salute), in cura per depressione e psicosi.
Non è una pratica scomparsa con la riforma di Franco
Basaglia che ha portato, grazie alle legge che porta il suo nome, alla chiusura
dei manicomi e all'apertura delle porte dei reparti psichiatrici. Nell'Italia
del terzo millennio sono ancora nove le strutture pubbliche e private che la
praticano: l'ospedale di Montichiari in provincia di Brescia, in quello di
Oristano, al Santa Trinità di Cagliari, a Brunico, Bressanone, Pisa e in tre
cliniche private convenzionate (San Valentino di Roma, Santa Chiara di Verona e
alla clinica Baruziana di Bologna). Una denuncia partita dalle parlamentari Pd
Delia Murer, Luisa Bossa e Maria Antonietta Farina Coscioni che lo scorso
luglio hanno presentato un'interrogazione parlamentare al ministro della Salute
Renato Balduzzi. "Non abbiamo ancora ricevuto risposta" dice Delia
Murer "Nonostante le linee guida su come intervenire preventivamente su
questa pratica, che dovrebbe essere l'ultima ratio".
IN COSA CONSISTE - I pazienti
si sottopongono alla terapia per cicli, col ricovero e un'anestesia di cinque
minuti. Ogni ciclo prevede 10-15 sedute con ogni volta lo stesso procedimento:
elettrodi, il gel applicato sopra le tempie per non provocare bruciature e la
scossa elettrica a basso voltaggio che attraversa il cervello per un tempo
variabile da due a otto secondi. Ecco la cura per uomini e donne che convivono
con la depressione, manie, schizofrenie, psicosi.
LA LEGGE DEL 1999 - Le linee
guida sono state dettate dal ministero della Sanità quando al dicastero sedeva
Rosy Bindi (siamo nel 1999) e prevedono che l'elettroshock possa essere
somministrato solo dopo che per più volte sia stata tentata la via
farmacologica e mai prima di un esame da parte di esperti esterni alla
struttura psichiatrica in cui il paziente viene curato. Le stesse linee guida
rilevano però che è tutta da dimostrare la superiorità della T.e.c. rispetto ad
alcune cure farmacologiche e che frequenti sono i rischi di ricadute. Proprio
per questo si incrementano i controlli e si richiedono consensi informati,
affinchè la T.e.c. sia l'ultima spiaggia e solo in casi di pazienti gravi
(depressione maggiore, ipertermia maligna, sindrome maligna da neurolettici).
COMUNITA’ SCIENTIFICA DIVISA
- Ancora oggi la comunità scientifica sul tema è fortemente divisa. E' una
pratica empirica non scientificamente provata, dicono i detrattori, tesi che i
sostenitori negano dicendo che all'estero c'è fior di letteratura sulla T.e.c.
Lo psichiatra Ernesto Venturini, del dipartimento di salute
mentale di Imola, racconta la sua esperienza: «Negli anni Sessanta la praticai
con convinzione, da assistente universitario, poi vidi cosa accadeva ai malati
che venivano curati con assistenza 24 ore su 24 a Gorizia da Basaglia e capii
che l'elettroshock non solo è un trattamento umiliante ma che i miglioramenti
sono solo legati alla perdita temporanea della memoria: ci si dimentica
dell'elemento ossessivo salvo poi avere peggiori ricadute legate anche alla
distruzione dell'autostima». Ma nonostante questi risultati i casi più
frequenti di ricorso a questo trattamento si hanno nei reparti guidati da
"elettroshockisti" convinti: medici riuniti nell'associazione
italiana per la terapia elettroconvulsivante (Aitec) che hanno chiesto
ufficialmente ai ministri della Sanità di incrementare le risorse utili a
diffondere la T.e.c. Secondo il primario del reparto psichiatrico dell'ospedale
di Brunico, Roger Pycha èuna terapia «salvavita nei casi gravi di catatonia
maligna e guaritrice nel 50 per cento dei casi di depressione maggiore».
Sulla stessa linea l'ex presidente di Aitec Athanasios
Koukopoulos: «Mentre nel resto d'Europa abbiamo centinaia di strutture che la
praticano, noi siamo fermi per ragioni ideologiche, con un paradosso: noi
l'abbiamo inventata ma non curiamo i nostri malati. L'elettroshock è una
terapia assolutamente senza effetti collaterali e anche la perdita di memoria
si ha solo con trattamenti prolungati nel tempo. Non è l'ultima ratio come
prescrive il ministero della Salute ma la prima perché per molti pazienti è
l'unico trattamento possibile».
LA BOCCIATURA DEL BRITISH MEDICAL
JOURNAL - Peccato che studi pubblicati nel 2005 sul British Medical
Journal (una delle quattro riviste mediche più autorevoli al mondo) delinea un
quadro completamente diverso: «L'uso dell'elettroshock in altre malattie come
la schizofrenia, oltre che alla depressione grave, non è giustificato dalle
evidenze». Ma non è tutto: il suo uso è stato largamente oggetto di abuso e un
terzo dei pazienti intervistati racconta di non aver dato un consenso veramente
libero a ricevere il trattamento, anche se avevano firmato il modulo del
consenso informato.
ALCUNE REGIONI SI SONO OPPOSTE
INVANO A QUESTA PRATICA - Puntando su questi presupposti alcune regioni
come la Toscana, Piemonte, Marche hanno provato a vietare l'elettroshock ma
sono andate incontro alla bocciatura della Corte Costituzionale. Il divieto di
una terapia medica non rientra nei poteri di un ente locale, nonostante la
riforma del 2001 che ha dato pieno potere in tema di sanità alle Regioni.
LE INIZIATIVE DI PSICHIATRIA
DEMOCRATICA - «Una terapia ascientifica, ottocentesca e abbrutente, che
spegne le persone senza curarle», spiega Enzo Lupo di Psichiatria democratica,
il movimento fondato dallo stesso Basaglia nel 1973 per liberare il malato
dalla segregazione in manicomio.
Per il prossimo anno è in cantiere la campagna di
Psichiatria democratica "No elettroshock" per raccontare, attraverso
questa testimonianza, cosa significa realmente: «Se fossi matto vi parlerei
degli elettroshock subiti negli anni addietro, dei terribili momenti
dell'attesa prima dell'applicazione degli elettrodi, delle urla, dell'intenso
odore di urine, della voce dell'infermiere che ti chiama per nome e del medico
che questo nome nemmeno conosce».
«Pensare che il cervello sia malato come dicevano gli
psichiatri nell'Ottocento, non è più possibile - sottolinea Luigi Attenasio,
presidente di Psichiatria democratica - . E' incontrovertibile quanto le
pratiche di salute mentale hanno dimostrato: l'unica strada maestra è la presa
in carico globale del paziente e non la costrizione, la chiusura». Per questo
Psichiatria democratica sostiene che la soluzione per superare questo
trattamento è aumentare le risorse necessarie ai centri di salute mentale, le
707 strutture pubbliche per attività ambulatoriale aperte 12 ore al giorno per
6 giorni alla settimana. Una fatica quotidiana per seguire i pazienti fino a
renderli il più possibile autonomi facendoli vivere in case-famiglia, dandogli
la possibilità di lavorare, di fare sport, di vivere delle relazioni stabili e
inserirli nella società.
E, dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettroshock
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Alda Merini
(Fonte: LaRepubblica)
Nessun commento:
Posta un commento