IL GIORNO DOPO LA PRESENTAZIONE DEL PIANO FINO AL 2018, IL
TITOLO FIAT E’ CROLLATO DI OLTRE L’11%. SCETTICISMO ANCHE DI LANDINI
Aveva chiuso con una citazione di Tolstoj sui sogni la sua
presentazione del piano quadriennale per il rilancio dell’Alfa Romeo e per il
marchio americano Chrysler. Ma le Borse non gli hanno creduto minimamente, sarà
anche per i bilanci poco incoraggianti dell’azienda. E così Sergio Marchionne
incassa subito una bocciatura, a cui vanno aggiunte quelle di Cgil e Fiom.
Insomma, i fuochi d’artificio di Marchionne non hanno impressionato gli attori
che sperava.
IL PROGETTO AMBIZIOSO DELL’AD
- Sergio Marchionne alza il tiro
sull’ormai mitologico e mai raggiunto obiettivo di produzione di Fiat e
Chrysler portandolo da 6 a 7,5 milioni di auto vendute a livello globale nel
2018, contro i 4,4 prodotti nel 2013 e il target di 4,5 per il 2014, a sua
volta nettamente ridotto rispetto agli originari 5,9 milioni.
Marchionne promette 55 miliardi di investimenti entro il
2018 con una media annua di 9,5 miliardi e un picco di 11 miliardi nel 2016.
Una decina dei quali, secondo i sindacati, sono in arrivo solo in Italia – i
cui impianti di Alfa e Maserati diventeranno degli “hub per l’export” come ha
sintetizzato Marchionne che si impegna a non licenziare nessuno nella Penisola
– e 5 per il rilancio dell’Alfa Romeo. Il tutto senza passare per alcun aumento
di capitale o per la vendita di asset o marchi come la Ferrari (“Chi pensa che
la venderemo si metta il cuore in pace”), ma anche senza distribuire alcun
dividendo ai soci. Anche perché il gruppo a fine quinquennio dovrà realizzare 5
miliardi di utili su 132 miliardi di
ricavi con un debito industriale a 0,5-1 miliardi dopo il picco di 11 miliardi
del 2015. Tanto più che secondo il direttore finanziario Richard Palmer
nell’arco del piano sarà possibile ripagare i bond di Chrysler e ridurre di
conseguenza il debito lordo.
Un mondo, quello che sogna Marchionne, dove 3,1 milioni di auto
della sua casa saranno vendute in Nord America, 1,5 milioni nell’area Emea
(Europa, Medio Oriente e Africa), 1,8 milioni in America Latina e 1,1 milioni
in Asia Pacifico. Quanto all’Italia le
stime sulle vendite sono attese in aumento di 100mila pezzi per passare dalle
400.000 del 2013 alle 500.000 nel 2018. E la capacità di utilizzazione degli
impianti, è la nuova promessa, salirà al 100% in Italia e a livello Emea
(contro l’attuale 53 e 66%) dove si prevede una riduzione del 15% dei
concessionari Fiat e Alfa entro il 2018, mentre quelli di Jeep aumenteranno del
25 per cento.
In particolare Pomigliano, ha assicurato l’ad, sarà
completamente utilizzato e nello stabilimento di Melfi è prevista la produzione
di duecentomila Jeep, marchio dal quale sono attese vendite per 1,9 milioni di
pezzi entro il 2018, che significa una crescita del 160% rispetto alle 732mila
del 2013. E intanto Fiat stima che dalle sinergie di acquisti e engineering
dalla collaborazione fra i marchi del gruppo arriveranno 1,5 miliardi di euro
di risparmi al 2018. Entro quell’anno il 95% dei volumi totali deriverà da 9
diverse famiglie di piattaforme contro le 12 del 2013.
E così i ricavi nell’area Nafta (Stati Uniti, Canada e
Messico), sempre secondo le attese dei vertici Fiat-Chrysler, saliranno da 46 a
67 miliardi di euro (da 46 miliardi di euro); in America latina da 10 a 15
miliardi; in Asia Pacifico da 5 a 11 miliardi di euro e in Emea da 17 a 26
miliardi. Il gruppo prevede di completare la quotazione a Wall Street entro la
fine del 2014, dopo la quale sarà lanciato il primo Yankee bond (un’emissione
in dollari di una società straniera destinata al mercato americano).
I NUMERI NEGATIVI DEL GRUPPO
- Ma intanto il gruppo italo americano archivia il trimestre con un rosso di
319 milioni di euro contro l’utile di 31 milioni dell’anno prima, complice
l’accordo con il sindacato americano Uaw siglato da Chrysler il 21 gennaio (315
milioni di euro al netto dell’impatto fiscale) e la svalutazione del Bolivar
Venezuelano. E intanto l’indebitamento netto è salito a 13,24 miliardi di euro
dai 10,158 di fine 2013, mentre la liquidità disponibile è scesa da 22,74 a
20,78 miliardi inclusi 3 miliardi di linee di credito non utilizzate.
LA REAZIONE DEI SINDACATI - Applausi,
intanto dai sindacati che hanno firmato
il contratto Fiat, rappresentati ad Auburn Hills. “Il piano è positivo”, ha
detto Ferdinando Uliano della Fim Cisl, sottolineando che con gli investimenti
annunciati dal 2013 al 2018 il gruppo “investirà nel nostro Paese 10 miliardi,
quando il governo non riesce neanche a trovare 400 milioni per salvare
Alitalia”. La Jeep a Melfi, inoltre, porterà lo stabilimento – aggiunge Uliano
– verso la piena occupazione, calcolando che una cifra analoga di 500X saranno
prodotte nell’impianto. Soddisfatto anche di Roberto di Maulo della Fimsic: “E’
in linea con le migliore attese, non c’è nessun abbandono dell’Italia”. Da
Torino però le tute blu della Cgil non sono d’accordo e chiedono “un confronto
specifico che riguardi gli stabilimenti italiani. Il primo che dovrebbe
pretenderlo è il governo“, ha detto Federico Bellono, segretario generale della
Fiom torinese. “Gli annunci non sono negativi, presuppongono investimenti
importanti. Non si tratta di dividersi tra chi si fida e chi no, ma gli impegni
devono diventare stringenti ed esigibili per evitare che si ripeta quanto
accaduto con piano Fabbrica Italia. Molti degli impegni annunciati si
riferiscono al 2018, quattro anni sono tanti”.
Il Landini-pensiero è al contrario che quello annunciato da
Marchionne è un “nuovo piano la cui credibilità va confermata e verificata
visto che molte volte i piani annunciati da Fiat sono stati modificati e
trasformati”. Ma è ora che “il governo cambi passo, abbandoni una situazione di
subalternità e non sia spettatore. Convochi l’azienda per esigere certezza
dell’impegno“, ha detto il leader Fiom. ”Marchionne dice che vuole scrivere un
nuovo libro: bene, ma in questo libro si deve cambiare modello di relazioni
industriali dove nessuno sia escluso e in cui il governo faccia la propria
parte come l’hanno fatto Obama, Merkel e Hollande”, ha aggiunto. Ma “il governo
deve fare il governo: la politica industriale deve svolgere un ruolo nella
quale si deve chiedere conto degli annunci. Ma questo se davvero il governo è
interessato a cambiare il proprio ruolo subalterno”, ha aggiunto. Con il piano
comunque, per la Fiom si renderebbe necessario “un utilizzo più esteso dei
contratti di solidarietà, facendo una riflessione stabilimento per
stabilimento”, ha concluso ricordando come già ora, per quanto riguarda la
produzione auto, il 60% dei lavoratori tra tutti gli stabilimenti Fiat siano in
cassa integrazione. Quanto alla Lancia, di fatto, ha argomentato
Landini,”scompare”, perché non c’è alcuna riflessione in merito. Inoltre, si chiede
ancora il segretario Fiom, “dove vengono reperite le risorse per finanziare” il
piano industriale visto che “c’è un indebitamento molto alto e la liquidità
interna, in passato, è stata utilizzata per pagare gli interessi sui debiti?”
LA SONORA BOCCIATURA DELLA BORSA
- La Borsa boccia sonoramente il piano industriale della Fiat presentato nella
notte da Sergio Marchionne a Detroit. Fin dall’apertura di Piazza Affari il
titolo non è riuscito a fare prezzo, per poi entrare agli scambi in perdita del
6% a 7,9 euro e a metà seduta ha ampliato le perdite per chiudere con un crollo
complessivo dell’11,69 per cento. Sull’ottovolante la controllante Exor che ha
oscillato per tutto il giorno e ha chiuso in calo dell’1,96 per cento. Molto
sostenuti gli scambi: in poche ore sono passate di mano oltre 43 milioni di
azioni Fiat (il 3,4% del capitale), contro una media quotidiana dell’ultimo
mese di Borsa di 16 milioni di pezzi. Al di là del piano industriale al 2018 e
della conferma di Marchionne fino a quella data, pesano i dati del primo
trimestre inferiori alle stime degli analisti. Sul titolo hanno pesato vari
fattori. Innanzitutto il fatto che agli obiettivi ambiziosi del piano non fa da
contraltare alcuna opzione che lasci margine alla speculazione come poteva essere
la vendita di Ferrari, né sorprese positive su indicatori come la generazione
di cassa (nulla fino al 2016 a causa degli investimenti previsti, 55 miliardi
quelli cumulati al 2018). Senza contare l’assenza di dividendi per tutto il
quinquennio. Poi c’è la trimestrale in rosso per la spesa non ricorrente
dell’acquisto della quota di Chrysler a gennaio dal sindacato Uaw. E così nel
breve periodo la previsione, pressoché unanime, delle case di investimento, è
di prese di profitto dopo la recente corsa del titolo e in attesa di vedere se
gli obiettivi, a partire da quelli di quest’anno, saranno centrati. Tra i
delusi del piano, spicca Mediobanca che ha abbassato la sua valutazione sul
Lingotto a neutral dal precedente outperform (che significa comprare moderatamente).
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