GLI AMMINISTRATORI DELEGATI CONSERVANO STIPENDI FARAONICI,
MENTRE I BILANCI IN ROSSO RICADONO SOPRATTUTTO SUI TAGLI AL PERSONALE E SUL
MINORE CREDITO CONCESSO A FAMIGLIE E IMPRESE IN CERCA DI CREDITO
Banche in crisi? No problem. Ci pensa il Governo a metterci
i soldi, ma soprattutto, a risentirne sono soprattutto gli impiegati che
rischiano i tagli al personale, nonché famiglie e imprese in cerca di prestiti.
Gli amministratori delegati invece conservano i propri lauti stipendi, bonus e
liquidazioni.
PER I MANAGER LA CRISI NON ESISTE
- Enrico Tomaso Cucchiani, accompagnato alla porta da Intesa Sanpaolo lo scorso
settembre dopo nemmeno due anni trascorsi al suo vertice, ha potuto consolarsi
con 2,1 milioni di stipendio e 3,6 di penale per recesso unilaterale dal
contratto. Per un totale di 5,7 milioni, a cui vanno sommati i 2,6 milioni
intascati nel 2012. E Intesa ha dovuto mettere in conto anche gli 1,6 milioni
di stipendio del nuovo amministratore delegato Carlo Messina. Più sobrietà in
casa Unicredit, dove l’amministratore delegato Federico Ghizzoni ha guadagnato,
l’anno scorso, “solo” 2,3 milioni. Niente a che vedere, comunque, con
l’austerity che da un paio d’anni vige dalle parti del Monte dei Paschi di
Siena (pronto a lanciare un aumento di capitale da 5 miliardi di euro):
l’amministratore delegato e direttore generale Fabrizio Viola nel 2013 ha
dovuto “accontentarsi” di poco meno di 1,8 milioni euro, mentre il presidente Alessandro
Profumo – in passato il banchiere più pagato d’Italia grazie ai lauti bonus
riconosciuti da Unicredit – si è fermato a poco più di 87mila euro. Molti oneri
e poco cash, soprattutto se, appunto, si confronta la busta paga con quella che
Profumo riceveva quando era al timone dell’istituto oggi guidato da Ghizzoni:
dal record di 9,4 milioni nel 2007 (l’anno della discussa acquisizione di
Capitalia) ai 3,5 del 2008 ai 4,2 del 2009. Fino alle dimissioni del 2010,
quando ad alleviare l’addio ci pensarono i 38 milioni ricevuti come “incentivo
all’esodo” e corrispettivo per l’impegno a non lavorare per altre istituzioni
finanziarie nei 12 mesi successivi.
Insomma, basta una rapida somma per scoprire che, nel solo
2013, le prime tre banche italiane hanno versato ai propri amministratori
delegati (Cucchiani, Ghizzoni e Viola) un totale di 9,8 milioni. Cifre che
fanno girare la testa. Soprattutto se si confrontano con l’andamento dei
risultati di gestione degli istituti stessi: nel 2007 – prima della grande crisi
finanziaria – Unicredit, Intesa e Mps avevano segnato a bilancio 16 miliardi di
utili complessivi, mentre l’anno scorso, tra accantonamenti e pesantissime
svalutazioni, hanno registrato perdite per quasi 20 miliardi (14 per Unicredit,
4,5 per Intesa e 1,4 per Mps). Non solo: nello stesso periodo il deterioramento
delle condizioni dell’economia reale ha fatto lievitare da 40 a oltre 160
miliardi i crediti in sofferenza (cioè difficili o impossibili da riscuotere)
in pancia agli istituti.
IL DIVARIO COI DIPENDENTI -
Non c’è dubbio poi sul fatto che i valori assoluti restino imponenti. Fattore
aggravante, lamentano i sindacati, è che quei valori sono sempre più lontani
dalla busta paga di chi in banca, più modestamente, ci lavora come sportellista
o impiegato. Come emerso nei giorni scorsi, l’ufficio studi del sindacato di
settore Uilca ha calcolato che l’anno scorso il rapporto è stato di 62 a uno:
un banchiere, cioè, ha guadagnato mediamente come 62 bancari. Nel 2000
“bastavano” gli stipendi di 42 impiegati per fare quello dell’ad. La disparità
ha poi avuto un picco nel 2007 e 2008, quando la proporzione è stata di 119 a
uno e 72 a uno, per ridursi lievemente negli anni successivi, fino al rapporto
di 53 a uno del 2012. Senza arrivare alla cosiddetta “regola Olivetti”
(recentemente rispolverata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi), in base
alla quale nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più
di dieci volte il salario minimo, i sindacati ritengono che il valore corretto
sarebbe di venti a uno.
Per di più gli stessi posti di lavoro dei dipendenti sono
sempre più a rischio, visto che, messe alle strette dalla crisi e complice il
boom dell’home banking, le banche tagliano anche su questo fronte. Intesa
prevede di chiudere 800 sportelli nei prossimi tre anni, arrivando a 3.300 dai
6.100 del 2007, Unicredit (che pure ha già pesantemente dismesso sedi negli
anni scorsi) punta a ridurli da 4.100 a 3.600 e Mps vuol fare a meno di almeno
200 filiali su 2.300. “La strategie attuate finora dalle banche italiane e
incentrate soltanto su un taglio lineare del costo del lavoro e degli sportelli
e sull’outsourcing di attività non hanno portato a un rilancio del settore”,
commenta con ilfattoquotidiano.it Lando Maria Sileoni, segretario generale della
Federazione autonoma bancari italiani (Fabi), definendo i tagli previsti “una
iattura” e sottolineando che questi non riguardano solo le aree dove c’è
maggior concentrazione di sportelli, ma anche le zone in cui c’è meno
sovrapposizione, “proprio dove, fino a pochi anni fa, si diceva che bisognava
aprire sportelli per scongiurare l’arrivo di banche straniere”.
MENO PRESTITI A IMPRESE E FAMIGLIE
- La dubbia gestione degli istituti italiani pesa anche sulla disponibilità di
credito per famiglie e imprese: nel dicembre del 2007 il totale dei prestiti
concessi ammontava a 1.279 miliardi, l’11% in più rispetto a un anno prima, ma
dal dicembre 2012 le somme prestate dalle banche (allora a quota 1.474
miliardi) hanno cominciato a calare mese su mese fino ai 1.434 miliardi di
febbraio 2014. Per quanto riguarda i finanziamenti alle famiglie, il calo è
evidente soprattutto per i prestiti finalizzati, quelli mirati all’acquisto di
un bene specifico. Un’analisi realizzata da Crif decision solutions,
specializzata nelle informazioni creditizie, rivela per questo tipo di
finanziamenti una contrazione su scala nazionale del 35% dal 2007 a oggi. Le
banche si difendono ricordando l’aumento delle sofferenze, che zavorrano i
bilanci. Ma “se sono in questa situazione, la responsabilità è soprattutto dei
vertici”, denuncia il Fabi. In che senso? A chiarirlo ci pensa uno studio di
Unimpresa su dati della Banca d’Italia, che mostra come le somme difficili da
recuperare siano legate per la maggior parte non ai piccoli prestiti, bensì
(per ben il 66,1%) ai finanziamenti superiori ai 500mila euro. Detto in altri
termini, oltre il 66% dei crediti dubbi fanno capo a una piccolissima
percentuale di debitori: il 3,9% del totale. “Le banche fanno credito senza le
dovute garanzie ai soliti noti (vedi Carlo Tassara, gruppo Ligresti e così
via)”, è l’accusa del Fabi, “dimenticandosi delle piccole medie imprese. E poi
pretendono di fare pagare il conto delle loro inefficienze ai lavoratori”.
(Fonte: Il
Fatto quotidiano)
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