L’ALLORA SINDACO DI FIRENZE SCALZAVA LETTA IL 22 FEBBRAIO,
CON L’INTENTO DI DARE UNA SCOSSA AL PAESE. MA LE COSE SONO PEGGIORATE
Ricordate la scena eloquente di Matteo Renzi che riceveva il
campanello dal Premier Enrico Letta, il quale non lo guardava neanche in
faccia? Era il 22 febbraio di quest’anno, circa 300 giorni fa. Lo stesso lasso
di tempo di quanto Letta è rimasto al governo. E allora un confronto tra i due
esecutivi lo si può fare e ci ha pensato Il
Fatto quotidiano. A quanto pare non va certo in favore del governo in
carica, che si era prefissato di dare una smossa ai conti italiani. E invece,
al contrario, i dati sono solo peggiorati.
Rapporto
Debito/Pil peggiorato con Renzi -
E’ chiaro che, bene o male che vada, l’andamento del quadro economico
non potrà essere addebitato per intero all’attuale capo del governo. Ma se i
principali indicatori-chiave sono peggiorati, non si potrà essere smentiti
nell’indicare al paziente che le promesse di pronta guarigione del medico erano
quantomeno ottimistiche. Partiamo dal parametro Debito-Pil, indicatore
rilevante non solo della salute dei conti ma della distanza dall’Europa
rispetto agli impegni presi, dai parametri di Maastricht al Fiscal Compact. La
media dei Paesi dell’Unione è oggi intorno al 93,8%. Quello dell’Italia ha
sfondato quota 132,8%. E a quanto era con Letta? Al 127,9%, media 2013 secondo
Istat ed Eurostat, mentre la media Ue era del 92,6%. Quindi se con Letta i
punti di distanza dal parametro europeo erano 36, con Renzi l’Italia toccano
quota 40: un aumento di 4 punti. Se poi si considera che il Pil Ue è cresciuto
e quello italiano – che pure sul finire del 2013 aveva registrato una timida
stabilizzazione – no, il dato è negativo per l’ex sindaco di Firenze, uno dei
peggiori degli ultimi lustri.
Industria,
con Letta si produceva di più - Non
meglio sono andate le cose sotto il profilo della produzione industriale. Lo
scorso gennaio, ultimo mese dell’era Letta, il dato aveva registrato un 1%
tondo di crescita, meglio della media Ue a 18 che era stata negativa dell’1,1
per cento. Con Renzi rispetto a letta l’Italia fa un passo indietro di un
punto, abbastanza da passare dalla fase positiva a quella negativa.
Non aiutano certo le grandi crisi industriali identificate
dal premier con le tre T, quelle di Terni, Taranto e Termini Imerese. Dove la
prima si è chiusa da poco con un accordo seguito a una durissima trattativa,
mentre le altre due languono irrisolte dopo quattro governi che si sono
dimostrati incapaci di gestirle. Anche qui la svolta renziana, complice la
scelta di un ministro dello Sviluppo economico incolore, non si è vista. Anzi.
Nel caso dell’impianto siciliano della Fiat, il premier è riuscito anche a
metterci la faccia quando la scorsa estate è andato di persona a rassicurare
gli operai di Termini annunciando un fantomatico investitore cinese che non si
è mai palesato. Chi si è fatto avanti, invece, è stato il gruppo di
“avventurieri” della Grifa al quale il dicastero di Federica Guidi, con la
sigla di un preaccordo, aveva socchiuso l’accesso a 250 milioni di euro pubblici.
Salvo poi scoprire dai giornali che gli aspiranti produttori di auto ibride non
avevano un soldo in tasca. Non va affatto meglio a Taranto, dove la svolta
renziana doveva passare per la riesumazione di un instancabile boiardo di Stato
di 72 anni, Piero Gnudi. Una scelta che lo stesso Renzi deve aver finito col
rimpiangere, visto che in queste ore si parla sempre più insistentemente della
nomina a breve di un nuovo commissario dell’Ilva a soli sei mesi dalla
staffetta Bondi-Gnudi. Cambio di testimone che, se i piani anticipati trapelati
saranno confermati, ufficializzerà anche il fallimento del processo di vendita
del gruppo dell’acciaio che occupa 11mila persone oltre all’indotto. Toccherà
quindi allo Stato farsi carico – secondo Repubblica al 49% accanto al tandem
Mittal-Marcegaglia al 51% – di buona parte del problema che include 1,8
miliardi di bonifiche da fare, 35 miliardi di richieste per danni ambientali e
debiti per quasi 2 miliardi.
Disoccupati,
con Renzi 156mila in più - A
fine febbraio, quando Letta lascia, i disoccupati in Italia erano 22 milioni e
259mila, sostanzialmente invariati rispetto al mese prima. Il tasso pari al
12,9%. Dopo otto mesi di “cura” Renzi la disoccupazione non solo non scende, ma
addirittura sale. L’ultimo dato è di ottobre e parla di un tasso record al
13,2%: i senza lavoro sono in pratica saliti in un anno da 3,124 a 3,410
milioni. L’aumento è di ben 286mila persone, 130mila nei 4 mesi del governo
Letta, e 156mila negli 8 mesi del governo Renzi. Che significa poi, in soldoni,
non solo più povertà e più spesa sociale ma anche un ulteriore “scollamento”
nella competitività sullo scacchiere internazionale: la distanza dal parametro
comunitario (12%) si fa ancora più marcata. Anche l’occupazione è stata al
centro di annunci, subito controversi, che ora si possono verificare. A fine
novembre Renzi aveva indicato un aumento del numero assoluto di occupati,
invitando a guardare il bicchiere mezzo pieno oltre al dato preoccupante della
disoccupazione. “Il tasso di disoccupazione ci preoccupa, ma guardando i numeri
il dato di occupati sta crescendo. Da quando ci siamo noi ci sono più di 100
mila posti di lavoro in più”. A stretto giro però fu smentito da sindacati,
giornalisti ed esperti di politiche del lavoro. Renzi aveva preso come termine
temporale non l’intero periodo in cui ha governato (dal 22 febbraio in poi) ma
il dato da aprile (uno dei dati più bassi dell’anno) e quello di settembre
(il più alto). Ebbene rifacendo i conti includendo però tutti i mesi - a
partire da marzo, il primo in cui il premier è stato stabilmente in carica e
fino a ottobre compreso - il bilancio dei nuovi posti di lavoro risultava
addirittura negativo: -31 mila posti di lavoro.
Riforme,
144 i testi di legge di Letta contro i 119 di Renzi - Il ritornello dura da quasi un anno:
da quel “sulle riforme gli ultimi dieci mesi sono un elenco di fallimenti”
enunciato il 16 gennaio nella prima direzione del Pd sotto la sua guida, Renzi
imputa sistematicamente a Letta la lentezza e la scarsa prolificità della sua
azione di governo. Ma cosa dice il tabellone, ora che la corsa tra i due
premier misura gli stessi metri? Che lo scalpitante Renzi è battuto
nell’iniziativa legislativa dal compassato Letta che lo stacca di oltre 25
misure. In dieci mesi il governo Renzi ha emanato 119 provvedimenti legislativi
contro i 144 di Letta. Il dato quantitativo, va detto, non è di per sé indice
del valore dei provvedimenti. Si potrebbe obiettare che c’è legge e legge, che
le misure in eccesso siano magari disposizioni secondarie ma non è così: al
netto di disegni di legge talvolta considerati impegni di poco conto, come le
ratifiche di accordi internazionali (40 by Letta, 35 by Renzi), il
differenziale tra i due governi resta marcato. E gli effetti degli annunci
renziani non si sono visti: la legge elettorale riposa sotto 17mila
emendamenti; la riforma costituzionale, bandiera dell’esecutivo Renzi e
pretesto per il defenestramento del predecessore, langue in Parlamento ostaggio
delle turbolenze interne al patto del Nazareno; il nuovo Senato è fermo al
palo; il Jobs Act è diventato legge solo il 16 dicembre e mancano i decreti
attuativi: la prima tranche è stata annunciata in zona Cesarini per la vigilia
di Natale.
Fiducie,
vince Renzi 32 a 13 - Diverso
anche il rapporto con il Parlamento. Dopo 600 giorni l’esecutivo Letta ha
all’attivo 52 provvedimenti divenuti effettivamente legge. Renzi, nei suoi 300
giorni, è fermo a quota 22. Questione di tempo, ma non solo. L’ufficio
legislativo della Camera ha misurato per IlFattoQuotidiano.it alcuni indicatori
statistici rilevanti come la propensione al ricorso alla fiducia per far
passare progetti di legge più o meno ordinari, che è sempre segnale di
debolezza di un esecutivo. Nei suoi 10 mesi Letta ne ha fatto ricorso 13 volte,
Renzi 32 volte, quasi il triplo.
Fondi
pubblici ai partiti, la riforma dimenticata - Il differenziale resta marcato anche in tema di iniziativa
legislativa. Ma dove sono poi andate a finire le rispettive leggi? Il bonus da
80 euro se lo ricordano tutti, perfino chi non l’ha mai visto. Alzi la mano,
invece, chi ricorda al volo una qualsiasi riforma di Enrico Letta. Zero di
zero, il vuoto. Eppure l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti – la
riforma che ogni anno lascia 60 milioni di euro nelle tasche degli italiani e
cambia alla radice il modo di fare politica – porta la sua firma. Così come
l’avvio dei piani straordinari per il rilancio dell’edilizia scolastica e il
pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione, che poi Renzi ha raccolto
e portato avanti. Ma nessuno ricorda che erano farina del sacco altrui. Merito
della maggiore enfasi posta sulla comunicazione dall’esecutivo Renzi, abile
nell’ascrivere tra i propri meriti la paternità di provvedimenti varati dal
precedente.
Debiti Pa,
Letta ha stanziato 47 miliardi sui 56 a disposizione - In primavera Renzi, ospite di Porta a
Porta, aveva promesso il pagamento di tutte le pendenze della Pa verso le
imprese entro il 21 settembre, giorno di San Matteo: “Altrimenti – gigioneggiava il 13 marzo con Bruno Vespa –
lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario”. Al 31 dicembre
2013 i crediti certi valevano 56,8 miliardi. La scommessa, si sa, è persa ma
non è questo il punto. Chi ha fatto di più per sciogliere il cappio che strozza
le imprese? A dare avvio all’operazione straordinaria di restituzione è stato
Letta: con il Dl 35/2013 ha messo a disposizione 40 miliardi per i debiti
esigibili al 31 dicembre 2012, con il Dl 102/2013 ha incrementato il fondo di
altri 7,2. Renzi, invece, del suo ci ha messo ben poco: nella Legge di
Stabilità 2014 ha aggiunto 0,5 miliardi e nel decreto 66/2014 altri 8,8. In
totale siamo a 47,2 contro 9,3. Il premier ha però il merito di aver facilitato
lo sblocco degli stanziamenti, anche se la procedura burocratica a carico delle
imprese rimane farraginosa. Per questo il problema al momento è tutt’altro che
risolto: secondo l’ultimo aggiornamento disponibile, datato 30 ottobre 2014, i
debiti effettivamente pagati sono fermi a 32,5 miliardi a fronte dei 56,2
miliardi stanziati, a copertura grossomodo al 58% dei crediti. Quasi uno su
due, in sostanza, manca all’appello.
Edilizia
scolastica, i fondi risalgono al 2013
- Idem per l’edilizia scolastica. Chi ci ha messo di più? Con i decreti
legge 69 e 104 del 2013 il governo Letta ha stanziato 1,7 miliardi per la
costruzione, la riqualificazione e la messa in sicurezza degli edifici. A
beneficiare della fatica è poi stato Renzi che ha dato corso all’attuazione dei
primi interventi personalizzando l’operazione con vari hashtag: #scuolebelle,
#scuolesicure, #scuolenuove. Ma i soldi, alla fine, sempre quelli sono. Anche
se l’ex sindaco di Firenze ne aveva annunciati il doppio: “Un piano per le
scuole – 3,5 miliardi – unità di missione – per rendere la scuole più sicure e
rilanciare l’edilizia”, si leggeva nella slide numero 20 con cui il neopremier
aveva condito la conferenza stampa del 12 marzo a Palazzo Chigi.
Leggi, con
Renzi tempi più lunghi - Altro
dato significativo è la dilatazione dei tempi tra la deliberazione delle misure
e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, indice di volta in volta di una
difficoltà sul fronte della stesura delle leggi stesse, del reperimento delle
relative coperture o nel rapporto col Quirinale che le deve controfirmare. Facendo
di conto, si scopre ad esempio che i tempi medi tra esecutivo Letta e Renzi si
sono dilatati significativamente, perfino con le misure d’urgenza. Tra
emissione e pubblicazione dei provvedimenti l’esecutivo Letta impiegava
mediamente 5 giorni, con Renzi 9. Tanto che l’urgenza di alcune misure viene in
parte smentita dal calendario: il record di Letta è di 15 giorni con la legge
n. 149 che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, quello di Renzi è
il dl. 74/2014 contenente Misure urgenti in favore delle popolazioni
dell’Emilia-Romagna colpite dal sisma che impiegherà 24 giorni per passare
dalla deliberazione in Consiglio dei Ministri alla pubblicazione in Gazzetta.
Quasi un mese, alla faccia dell’urgenza.
Decreti
attuativi, Renzi li taglia, ma ne produce di nuovi - Il tallone d’Achille di ogni governo
è la montagna di decreti delegati e regolamenti attuativi che sono demandati ai
singoli ministeri e che arrivano in ritardo – anche di anni – rispetto alla
misura cui fanno riferimento. Senza, la legge è carta straccia. Renzi aveva
preso di petto la questione. Informato che lo attendeva una montagna di 889
provvedimenti da attuare, ereditata dai governi Monti e Letta, aveva sbottato
così: “E’ inutile fare leggi se non si applicano, è allucinante”. Seguiva
l’annuncio di una terapia d’urto per dare certezza alle misure: limite di 60
giorni per l’approvazione, principio del silenzio assenso tra amministrazioni,
potere sostitutivo della Dpcm in caso di ritardo. Ma l’impalcatura è crollata,
alcuni pezzi sono stati imballati e spediti alla legge delega di riforma della
Pa. Tempi lunghi, insomma. Il governo Renzi ha ridotto della metà lo stock di
quelli ereditati (ne restano 410), ma nel frattempo il fardello dei decreti
inattuati ha continuato a crescere per effetto delle sue stesse leggi. Se Letta
ha lasciato 415 decreti da adottare, in riferimento a 110 provvedimenti non
conclusi, Renzi ne ha aggiunti 274 riferiti a 33 provvedimenti pubblicati in
Gazzetta Ufficiale (16 sono auto attuativi). Ancora mancano 5 decreti alla
legge che aboliva le Province (L. 56/2014) pubblicata in Gazzetta ad aprile,
nove mesi fa. E giù cascata tutte le altre. Un esempio? Nel 2012 è stata
approvata la legge che ha introdotto l’Agenda Digitale, che dovrebbe agganciare
1,7 miliardi di fondi europei. Da allora sono stati approvati solo 18 dei 53
provvedimenti attuativi che la renderebbero operativa. Insomma, neppure lui ha
davvero invertito o fermato la tendenza dilatoria delle burocrazie ministeriali.
Il punto è che se n’è accorta pure l’Europa: gli annunci di riforme non
coincidono con la realtà. L’11 novembre scorso la Commissione Ue ha inviato
all’Italia il suo rapporto sugli squilibri macroeconomici e ha rilevato
“incertezze” sulle misure indicate dal governo Renzi nell’aggiornamento del Def
(Documento di economia e finanza): troppe, dice la Commissione, quelle che
“aspettano la piena approvazione o i decreti attuativi e quindi i risultati
restano incerti”.
Non è un caso che più sondaggi danno la fiducia nei confronti di Renzi in picchiata. Oltre alle battute, alle slide, agli annunci, di concreto abbiamo visto ben poco. E dice pure di voler restare al Governo fino al 2018. Ma qualcuno gli ricordi che non è stato eletto e altri tre anni e mezzo di Esecutivo non eletto, dopo già tre trascorsi, sono un po’ troppi…
SONDAGGIO
Unanime la bocciatura del Governo Renzi da parte dei lettori.
abbiamo recuperato credibilità in Europa, e non è un fatto secondario
RispondiEliminaquanto alla ripresa, è lenta ma ci sarà...
certo che è difficile governare con tutti che ti remano contro
Mi pareva fosse evidente... ma anche una statistica che confermi non fa male... visto che ormai quella di raccontare balle anche nelle situazioni più evidenti è un'abitudine inveterata!
RispondiElimina... e adesso tutti dietro al prossimo venditore di fumo: Matteo Salvini.
RispondiEliminaUn copiato niente male!
RispondiEliminacinque per cento la crescita degli Stati Uniti e l'itaglia, che dice padòan? azzo!........ padoa schioppa-padòan, com'è piccolo sto mondo
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