DOPO IL MID-TERM DI IERI ANCHE IL SENATO PASSA AI
REPUBBLICANI, CHE AUMENTANO I PROPRI SEGGI ANCHE ALLA CAMERA
Le elezioni del Mid-term (con le quali si rinnovano le due
Camere a metà mandato) a questo giro sono state ancora più severe con il
Presidente americano Barack Obama, rispetto a quelle già disastrose di quattro
anni fa. Se nel 2010 il Presidente afroamericano perse la
Camera e si vide assottigliare drasticamente i seggi al Senato (all’epoca
nei repubblicani soffiava forte il vento del Tea party), adesso addirittura
perde entrambe le camere. Quella dei deputati non è mai stata democratica e
dunque Obama è stato fin dalla sua seconda investitura “un’anatra zoppa” – come
viene definito il Presidente in carica che può contare solo sull’appoggio di
una Camera – ma ora perde anche il Senato, coi repubblicani che conquistano
otto seggi, diventando maggioranza visto che ne avevano solo sei in meno. Una
bocciatura non solo per Obama, ma anche per tutto l’establishment del Partito
democratico. In particolare per Hillary Clinton, che nonostante abbia
partecipato a 45 eventi elettorali negli ultimi 54 giorni, non è riuscita ad
avere un grande impatto. Eppure dovrebbe essere proprio lei la futura candidata
tra due anni.
L’ONDATA REPUBBLICANA - Il
controllo della Camera da parte del Grand Old Party, come negli Usa viene
chiamato il Partito repubblicano, non era mai stato in discussione, e la sua
conferma è venuta subito dopo la chiusura delle urne. La gara quindi era tutta
concentrata sul Senato, dove l’opposizione aveva bisogno di togliere sei seggi
ai rivali democratici per diventare maggioranza. Ci è riuscita, andando ben oltre
le aspettative. I repubblicani, infatti, non hanno vinto solo negli stati più
deboli detenuti fino a ieri dai loro avversari, ma anche in molte regioni che
proprio Obama aveva conquistato, cambiando la geografia politica degli Usa. Il
Grand Old Party si è ripreso subito Montana, West Virginia, South Dakota,
Arkansas, Alaska, e fino a qui non si può parlare di vere sorprese.
Poi, però, ha portato via ai rivali anche Iowa, North
Carolina e Colorado, che Barack aveva trasformato in stati blu puntanto sugli
immigrati ispanici, i neri, le donne, i giovani, e i moderati bianchi che non
si riconoscevano negli estremismi dei repubblicani modello Tea Party. Questa
era la coalizione che aveva costruito il primo presidente di colore, e che
sembrava destinata a durare, se non altro per ragioni demografiche. Le sue
politiche degli ultimi sei anni, però, hanno deluso la sua base, che per
reazione ha abbandonato i candidati democratici, nonostante negli ultimi mesi
l’economia avesse dato segnali di ripresa. A queste sconfitte si è aggiunto il
ballottaggio in Louisiana, che l’incumbent democratica Landrieu sembra
destinata a perdere il prossimo 6 dicembre, e le vittorie di misura ottenute
dal partito del presidente nel New Hampshire, e soprattutto in Virginia, un
altro stato tradizionalmente repubblicano, che Obama era riuscito a
conquistare.
Ora tutto torna in gioco, in vista delle presidenziali del
2016. La coalizione di Barack è crollata e i repubblicani hanno un percorso
praticabile da seguire per tornare alla Casa Bianca, se si considerano anche le
vittorie in Florida e in Wisconsin per la poltrona di governatore. Scott
Walker, che ha trionfato in questo stato blu, potrebbe presto emergere come un
forte candidato presidenziale, oltre ai nomi già noti e citati come quelli di
Jeb Bush, Rand Paul, Marco Rubio, e Chris Cristie. L’establishment si è preso
la rivincita sul Tea Party, dimostrando che i candidati moderati vanno più
lontano. Ora però dovrà smettere di dire solo no ad Obama e fare ostruzionismo,
come ha fatto finora il nuovo leader del Senato Mitch McConnell, se non vuole
pagare la paralisi fra due anni.
LA BOCCIATURA SU PIU’ FRONTI
- L’economia in ripresa non è bastata a salvare dunque Obama, visto che la
disoccupazione è tornata al 6% e dunque ai livelli cronici pre-crisi. Ma ad
aumentare sono stati i lavori marginali (commessi, camerieri, pulizie, ecc),
mentre sembra definitivamente tramontata l'idea di un benessere crescente per
(quasi) tutti, naturalmente grazie allo “sforzo individuale”. Non è un
dettaglio, perché buona parte del “sogno americano” poggia su questa base. È
un'America che accetta tranquillamente di liberalizzare la marijuana (vince il
referendum in Oregon e nel distretto di Columbia, che comprende Washington) e
pensa alla fatica di arrivare a fine mese.
I salari sono bassissimi (Obama fatica a convincere le
imprese ad accettare come salario minimo di legge i 7,5 dollari l'ora, meno di
sei euro), i consumi ridotti, l'"ascensore sociale" bloccato. Anche
se il prezzo della benzina è diminuito (pur senza rientrare sotto i due dollari
al gallone, che secondo molti yankee è quasi un “diritto costituzionale”). Poi
c’è il fronte delle delusioni per l’incerto lancio della riforma sanitaria, il
mancato rinnovo delle leggi sull’immigrazione, il tentativo fallito di limitare
la vendita delle armi dopo la strage di Sandy Hook.
Poi c’è il fronte estero. Pesano meno, sulla mentalità
“nazionalistica” statunitense, di massa, le crisi in Ucraina o in Medio
Oriente. Il mondo è per gli yankee un posto dove andare a prendersi quel che
serve, senza troppi riguardi. E la “caduta del Muro” ha consolidato l'idea che
nulla e nessuno può opporsi al volere degli Usa.
Preoccupano invece di più gli addetti ai lavori, i dirigenti
di tutte le imprese multinazionali e delle banche, ma con in prima posizione –
come sempre - le compagnie petrolifere. In questo ambiente d'èlite Obama appare
come un “esitante”, un “vorrei ma non oso”. Nonostante l'avventura Ucraina e lo
sconquasso in Medio Oriente siano in realtà dovuti proprio all'interventismo
statunitense. Ma in questo campo ogni valutazione razionale del rapporto
costi/benefici, propria di ogni presidenza Usa, al di là degli slogan
elettorali, viene vista male da entrambe le parti dell'elettorato: Il “troppo
inteventismo” è per i repubblicani un “difetto di intervento”, un “combattere
con una mano legata dietro la schiena”, una frenata inspiegabile alla
dimostrazione di potenza.
LE PROSPETTIVE FUTURE IN VISTA DELLE PRESIDENZIALI - Le prossime presidenziali americane si fanno quanto mai
incerte. Seppellito completamente lo slogan “Yes, we can” e il sogno di
un’America diversa da quella guidata da Bush attraverso la speranza suscitata
da Barack Obama, i democratici escono sconfitti e spaesati. Peraltro già certi,
per le ragioni di cui sopra, che la Clinton non scalderà i cuori degli americani.
A questo punto, potrebbero accelerare i tempi per la
discesa in campo di George Clooney; l’unico che a questo punto può salvare
la nave che affonda. I repubblicani invece sono super-lanciati; del resto, in
questi sei anni all’opposizione hanno concesso solo nei primi due anni entrambe
le camere ai democratici, per poi prendersene una, come detto, nel 2010, e ora
addirittura ritornando maggioranza. E questa volta non hanno neppure dovuto
fare ricorso agli estremisti del Tea party, segno di una maturità politica
ritrovata e di una maggiore credibilità su più tematiche.
Quanto a Obama, cosa dire. Ha fatto quello che poteva, in un
Paese che non gli ha dato mai massima fiducia e nel quale governano
le lobby.
Non è raro negli USA che i presidenti perdano le elezioni di medio-mandato. Obama è solo un altro caso. Almeno negli USA se qualcuno non ti piace non continui a votarlo come si fa in Italia.
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