A DENUNCIARLO organizzazioni
politiche e sociali della sinistra basca, ALTRE HANNO TACIUTO PER NON
ESSERE ACCUSATE DI TERRORISMO. MA I BASCHI RAPPRESENTANO SOLO 1 CASO SU DIECI,
IL FENOMENO E’ GENERALIZZATO
“L’ETA ordina ai suoi
militanti arrestati di denunciare di aver subito tortura, quindi chi denuncia è
dell’ETA” è stato per lungo tempo il messaggio mandato alla società
spagnola da istituzioni, politici e media. Già perché la democratica Spagna non
è retrò solo per la presenza della Monarchia – anche se ormai solo simbolica –
ma anche perché certi metodi non sono morti assieme al dittatore Francisco
Franco. Per decenni le organizzazioni politiche e sociali della sinistra basca
lo hanno denunciato. E così anche decine di avvocati (finiti spesso in
manette), attivisti per i diritti umani, parenti delle vittime, le vittime
stesse. Ma le loro denunce sono rimaste lettera morta nove volte su dieci: i
tribunali le hanno archiviate o respinte, i media hanno eretto un efficace muro
di gomma e i leader politici hanno trasformato gli abusi dei corpi di sicurezza
in segnale inequivocabile di appartenenza all'Eta di chi li denunciava. Negli
ultimi dieci anni, dal 2004 al 2014, sono stati in tutto lo Stato ben 6621 i
casi di tortura e maltrattamento raccolti e documentati dal Coordinamento per
la Prevenzione della Tortura. Non si tratta certo di “casi isolati” ma di una
pratica sistematica per i tutori dell’ordine, soprattutto in alcuni territori
dello Stato. Adesso qualcosa sembra finalmente muoversi.
IL FENOMENO - Nel 2011
Agustín Toranzo denunciò pubblicamente di esser stato torturato da due
poliziotti nel corso dello sfratto da una casa occupata a Siviglia. Il
tribunale al quale denunciò il fatto lo condannò a pagare mille euro a un
agente e 200 all’altro, perché li avrebbe calunniati.
Antonio Molina, un pensionato di 67 anni cardiopatico e
operato a un polmone, poche settimane fa è stato condannato a pagare 350 euro a
tre poliziotti e a sei mesi di carcere per ‘attentato all’autorità’, dopo aver
denunciato di esser stato colpito sia in strada sia all’interno del
commissariato dove era stato condotto. Una perizia avallava la sua versione ma
il giudice ha dato ragione agli agenti.
Finisce così nella maggior parte dei casi, il che fa
supporre che molte delle vittime di maltrattamenti da parte delle forze
dell’ordine non denuncino affatto alle autorità gli abusi, per timore di essere
messi sul banco degli imputati. Del resto in dieci anni le condanne contro
esponenti delle forze dell’ordine accusati di maltrattamenti e torture sono
state solo 752, e nel 90% dei casi si è trattato di pene lievissime quando non
puramente simboliche.
Il Tribunale Europeo dei Diritti Umani ha condannato Madrid
ben sei volte accusandola di non garantire opportune e serie inchieste in caso
di denuncia per tortura. Anche il Comitato Europeo per la Prevenzione della
Tortura ha ripreso le autorità spagnole per lo stesso motivo. Ma senza effetti.
“La tortura in Spagna è una realtà quotidiana. Ogni giorno
ci arrivano informazioni su qualche persona che è stata sottoposta ad abusi e
maltrattamenti. Dall’obbligo di mantenere a lungo posizioni scomode a flessioni
fino a stupri e aggressioni fisiche” denuncia al quotidiano Publico Jorge del
Cura, portavoce del Coordinamento per la Prevenzione della Tortura. “Esiste un
sistema che prevede l’impunità. C’è bisogno di qualcuno che autorizzi, di
qualcuno che organizzi, di qualcun altro che copra e poi di qualcun altro
ancora che si incarichi di amnistiare i responsabili”. Un’opinione condivisa da
Pau Pérez, consigliere del Meccanismo Nazionale di Prevenzione della Tortura e
perito nei tribunali nazionali e internazionali delle vittime di
maltrattamenti; secondo lui il problema non sono “i poliziotti che
singolarmente decidono di violare le leggi”. “Quando parliamo di tortura si
pensa a quella del franchismo. Ma noi parliamo di una tortura intimidatrice
contro i migranti, i militanti dei movimenti sociali, che è fisica, ma che
punta soprattutto sulla paura, sulle minacce, sul terrore. La paura del dolore
è peggiore del dolore stesso” spiega Perez, secondo il quale nel Paese Basco
esiste una forte differenza: “Lì si tratta di una tortura organizzata, fredda,
diretta da veri e propri ‘direttori d’orchestra’, che gioca con la confusione,
l’umiliazione, la vergogna, il dolore che stordisce, che rompe le coscienze e
la ludicità più che le ossa, che colpisce l’identità più profonda delle
persone”.
ALCUNI CASI - Il giudice del
Tribunale Supremo Joaquín Giménez (anche lui intervistato da Publico) non
crede, come invece afferma Perez, che esistano “corpi d’elite specializzati
nella tortura” ma certamente segnala come evidente il fatto che “i singoli
poliziotti non praticano certi comportamenti se l’ambiente in cui operano non
garantisce una certa impunità”.
Un’impunità che può contare anche sui massimi livelli della
magistratura spagnola, non certo sensibile al tema. Il Tribunale
Costituzionale, ad esempio, non si può certo dire che sia andato a fondo ogni volta
che avrebbe potuto. Ad esempio nel caso del basco Mikel Soto, arrestato nel
2002 con l’accusa di collaborazione con banda armata insieme alla sua compagna.
Durante i primi giorni di arresto – l’incomunicaciòn, l’isolamento totale
durante i quali il prigioniero non può avere nessun contatto al di fuori dei
carcerieri – venne incolpato di un omicidio, così come la sua compagna che
confessò di aver partecipato all’esecuzione del consigliere della destra
navarra José Javier Múgica, anche se non era vero, come poi è stato dimostrato
in seguito.
“E’ complicato spiegare le torture che ho sofferto. Quanti
colpi ho ricevuto sulla parte posteriore della testa, le vessazioni fisiche, la
pistola che mi misero in bocca…” ha raccontato poi. “Erano professionisti, non
sembravano un gruppo di matti al quale la cosa era sfuggita di mano” spiega
Soto, che dopo due giorni di ‘interrogatorio’ dovette essere ricoverato in
ospedale dagli stessi aguzzini per lo stato in cui lo avevano ridotto. Poi
trascorse due anni in carcere, condannato per l’omicidio, prima che in Francia
fossero ritrovati dei documenti che lo scagionavano. Ma comunque fu condannato
per “tentativo di banda armata”, perché secondo lo Stato Mikel Soto cercò di
collaborare con l’ETA anche se non ci riuscì (!). La sua dettagliata denuncia
di tortura, nel frattempo, giace inevasa in qualche cassetto del Tribunale
Costituzionale.
Da tempo associazioni, esperti e ong chiedono che almeno i
commissariati vengano monitorati da telecamere, inascoltati. Se lo Stato avesse
applicato questa misura forse Unai Romano – un altro basco – avrebbe evitato di
diventare un pungiball. La sua foto prima e dopo le torture – completamente
livida e gonfia, irriconoscibile - è diventata un simbolo internazionale della
lotta contro la tortura. Anche lui fu arrestato con l’accusa di ‘banda armata’
nel 2001, e anche lui dopo pochi giorni di interrogatori dovette essere
ricoverato in un ospedale. “Appena arrivato a Madrid mi misero in una cella
d’isolamento piccolissima, mi dissero di non guardarli mai negli occhi e
cominciarono l’interrogatorio. Quando la risposta non gli piaceva mi colpivano
alla testa con sempre maggiore intensità – ha denunciato – Passarono ore a
colpirmi. Domande, risposte, botte, nella parte superiore della testa o nella
parte posteriore. Io ero in un angolo della cella, contro una parete. E mi
minacciavano: ti facciamo la bolsa (soffocamento con una busta di plastica,
ndr), ti mettiamo gli elettrodi, ti torturiamo con la bañera (versione spagnola
del waterboarding, ndr)….”. La tortura non era solo fisica, ma anche
psicologica: “Mi dissero che avevano arrestato mia madre e che la stavano
torturando. Poi mi dissero che era morta”. Dopo due giorni Romano non ci vedeva
quasi più e la testa era gonfia come un pallone, e cominciò a mordersi per
obbligare gli aguzzini a smettere e a portarlo in ospedale dove gli fu
diagnosticato un edema cerebrale. Ma il suo caso, neanche a dirlo, è stato
archiviato…
MA I BASCHI RAPPRESENTANO SOLO 1
CASO SU DIECI - Secondo le statistiche, racconta Pau Perez, almeno il
50% dei casi di tortura denunciati e documentati riguardano attivisti dei
movimenti sociali, circa il 40% migranti e un 10% attivisti della sinistra
politica e sociale basca. Il che non vuol dire che sono pochi i casi raccolti nel
Paese Basco ma, al contrario, che il fenomeno è assai più generalizzato e
grave, anche se finora media e opinione pubblica democratica di quel paese
hanno fatto finta di nulla.
(Fonte: Contropiano)
noi li incrociamo giovedi i baschi,...
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