A TEORIZZARLO Mike
Archer, ricercatore australiano. LA COMUNITA’ SCIENTIFICA NON HA ANCORA
TROVATO UNA RISPOSTA
Sono passati circa tre anni da quando Mike Archer,
ricercatore australiano, ha pubblicato un articolo in cui sosteneva che
seguendo una dieta vegetariana o vegana vengono uccisi più animali rispetto ad
una dieta onnivora. Una tesi alquanto scioccante, specie per chi segue quei
regimi alimentari proprio per risparmiare la specie animale. Il dibattito in
materia è acceso.
LA TEORIA DI ARCHER - Le sue
affermazioni erano basate sul fatto che alcuni animali da “carne” (in
particolare bovini e canguri) allevati allo stato brado si alimentano
prevalentemente con vegetali che l’uomo non mangerebbe mai. Questa condizione
non comporterebbe problemi significativi per l’ambiente e gli animali non
andrebbero incontro a sofferenze se non al momento della macellazione. Al
contrario, per produrre alimenti di origine vegetale è necessario modificare
l’ambiente ed anche utilizzare tecniche di coltivazione invasive che
sconvolgono il territorio e richiedono l’uso di sostanze chimiche sotto forma
di fitofarmaci e pesticidi. L’ecosistema ne verrebbe alterato e la conseguenza
sarebbe la morte con gravi sofferenze di un gran numero di animali mammiferi
(es. topi) e di invertebrati.
Non sono state però considerate le produzioni “biologiche”
che non fanno uso di sostanze chimiche “xenobiotiche”; probabilmente questa
mancanza è dovuta al fatto che in Australia sono prevalenti le colture agricole
“convenzionali” rispetto alle biologiche”.
Il lavoro di Archer è stato oggetto di un accesso dibattito
tra animalisti, vegetariani e vegani da una parte e dall’altra movimenti di
cittadini con opinioni diverse che non ha portato a risultati concreti per cui
tutti sono rimasti con le proprie idee.
OPINIONI CONTRASTANTI - La
FAO ed altri Organismi stanno seguendo con grande attenzione l’evoluzione delle
conoscenze scientifiche nel settore e sono relativamente frequenti degli “aggiustamenti”
nelle valutazioni dei rischi ambientali, ma anche alimentari che derivano dai
vari tipi di produzioni.
Sono stati costruiti diversi modelli di “piramidi”
ambientali e/o alimentari che però alle volte riflettono gli interessi, anche
economici, di chi li propone. In ogni caso si stanno compiendo numerose
ricerche e probabilmente nei prossimi anni sarà possibile avere delle
informazioni più accurate e veritiere.
Uno degli aspetti più controversi è quello della produzione
degli alimenti di origine animale; un argomento abbondantemente impiegato per i
detrattori è che l’alimentazione degli animali da allevamento si basa su
prodotti (cereali, leguminose, ecc.) che potrebbero essere mangiati
direttamente dall’uomo.
Chi è invece a favore degli alimenti di origine animale ne
esalta il valore nutrizionale e fa rilevare che ne bastano quantità modeste per
fare fronte ai propri fabbisogni; in definitiva quindi non ci sarebbero i
lamentati grandi sprechi.
Un aspetto di non poco conto, peraltro evidenziato dal Prof.
Archer, è che gli erbivori (ruminanti in particolare) possono vivere e produrre
alimenti per l’uomo senza competere con lui. Questo avviene non solo negli
allevamenti allo stato brado dove la sola fonte alimentare è rappresentata dai
foraggi, ma anche in molti allevamenti intensivi di bovini da carne e/o da
latte dove la fonte alimentare prevalente sono appunto i foraggi freschi o
conservati. Gli ovini ed i caprini che si adattano facilmente a diverse
condizioni ambientali riescono a dare ottime produzioni con relativi bassi
investimenti. Altro aspetto importante è che per produrre foraggi viene
utilizzata l’anidride carbonica che, purtroppo, è presente in eccesso
nell’atmosfera. Per un corretto calcolo dell’impatto ambientale degli allevamenti
dei ruminanti, sarebbe quindi utile misurare non soltanto quanto viene emesso
dagli animali, ma anche quanta anidride carbonica gli animali con la loro
alimentazione contribuiscono ad assorbire. Con ogni probabilità ci si
renderebbe conto che l’impatto ambientale degli allevamenti dei ruminanti è
meno drammatico di quanto finora stimato. Bisogna però anche aggiungere che i
bovini ruminanti emettono metano che ha scarse possibilità di essere
“riciclato” e che è forse il vero elemento critico.
(Fonte: La
Stampa)
Una teoria un pò spinta...
RispondiEliminadiciamo che una giusta via di mezzo non guasterebbe